“Quello che chiamiamo
rosa, anche con altro nome avrebbe il suo profumo.”
Giulietta Capuleti
Perché
non mi sottrai tu che sei l’artefice del tempo?
Sempre più spesso sogno che una
divinità delle origini, di quelle che vivevano lungo i fiumi o nei boschi mi
sottrae da questa era conducendomi in un luogo sovrannaturale dove ho la
sensazione di essere veramente me stessa. Nella vita di tutti i giorni invece
non tollero più le strette di mano, i pranzi di lavoro e la suoneria metallica
del cellulare, ma soprattutto di fronte a mio padre abbasso lo sguardo e vado
oltre. In cuor mio vorrei spiegargli che non mi ritengo una disadattata sociale
perché a quarant’anni non sento la necessità di sposarmi e di avere dei figli,
questa mia scelta viene vissuta dai miei genitori come un oltraggio nei loro
confronti. Essendo l’unica discendente di una famiglia di imprenditori molto
stimati vorrebbero da me degli eredi, possibilmente maschi. I miei genitori non
hanno capito che per me è più importante muovermi all’interno del tempo, dello
spazio e del suono secondo metri personali. Sono stufa delle regole
convenzionali della società.
Almanaccando
questi problemi cammino per le strade del centro storico. Fa freddo e cadono
dal cielo granuli di nevischio argenteo. E’ bellissimo quando un raggio di luce
si riflette su queste particelle perché sembra di procedere attraverso la Via
Lattea.
Ora imbocco Via Colle dell’ortica
ed entro in una libreria che vende libri usati, giro e rigiro tra gli scaffali
dove sono ammucchiati disordinatamente volumi di tutti i generi e scopro
usurato dal tempo: “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare in una vecchia
edizione popolare del 1908, epoca in cui queste opere incominciavano ad avere
una divulgazione più vasta. Con pochi soldi mi porto via questo libro e pagina
dopo pagina, parola dopo parola, m’impregnerò di questo dramma che ha
attraversato i secoli fino a raggiungere la nostra epoca e chissà quante epoche
vedrà ancora.
Cammino a passi svelti per
vincere il freddo, avvolta nella mia mantella di cachemire nero con il cappello
a falda larga che mi ripara la testa. Nella tasca interna della giacca tengo
protetto il mio acquisto e sfidando il cattivo tempo raggiungo finalmente casa.
Mi preparo cena: brodo di carne e fette di pane abbrustolito spalmate di paté
di fegato, dopo aver mangiato lavo le stoviglie utilizzate e le ripongo
nell’acquaio ad asciugare, finalmente sono libera di dedicare tutto il tempo
che resta della giornata a me stessa. Prima di addormentarmi leggo un po’
sdraiata sul sofà del salotto in compagnia della mia gatta Briciola che nutre
la mia tenerezza strofinando il suo manto nero e vellutato contro le mie gambe.
Per farle capire che le voglio bene la prendo in braccio e la bacio sotto il
mento fino a quando contenta di aver ricevuto da me le attenzioni richieste si
raggomitola nella poltrona e s’addormenta. Fuori la nebbia di fine novembre
ammanta i campi di granturco, densa si spande su tutta la pianura.
Nell’intimità della vita domestica ritrovo me stessa: vorrei che la solitudine,
la lettura e la contemplazione diventino le fondamenta del mio benessere
interiore. Osservo dalla finestra della mia camera le montagne, e da qualche
parte in me sopraggiunge il ricordo degli anni universitari, quando passavo le notti
estive a questa finestra ad immaginare l’impossibile quadratura del cielo.
La prima cosa di cui ho bisogno
al mattino è un buon caffè bollente, pregusto il suo sapore ancora prima di
riacquistare il senso dello spazio e del tempo, del sogno mi è rimasta una
sensazione incantevole, forse sognare è l’unico modo che abbiamo per comunicare
con gli Dei. Eccomi, come ogni mattino ritornata da quel viaggio, riapro gli
occhi, afferro con le braccia il cuscino e ci affondo la testa per assaporare
ancora qualche minuto di sonno, ma ormai il viaggio è finito, lo capisco dai
rumori che arrivano dalla strada. Sono ancora sotto la coltre di lana
morbidissima, avvolta nel pigiama di flanella, la casa è fredda e fatico ad
alzarmi, con uno sforzo tiro via le coperte e con uno scatto mi ritrovo seduta
con i piedi gelidi infilati nelle pantofole, poi prendo il plaid dal letto
ancora caldo del mio corpo, mi ci avvolgo dentro e mi avvicino alla finestra,
tiro le tende, e scopro con gran meraviglia la brina, che come una Dea ha
rivestito i tetti, la strada, il piccolo cortile della casa confinante dove la
signora Caterina tutta intirizzita dal freddo sta ritirando la roba stesa,
dalle grondaie scendono coni di ghiaccio. Penso che sia di buon auspicio
scambiare quattro chiacchiere con la vicina, apro la finestra e la saluto:
<<Buon giorno signora>> <<Buon giorno cara>> mi
risponde, mentre continua a ritirare la roba stesa: <<ha visto che tempo,
mi si è gelata tutta la biancheria>> <<ha passato bene il fine
settimana?>> le chiedo, <<Si, è venuto mio figlio con la sua
famiglia. E lei?>> <<mah, niente di speciale, sono rimasta a
casa>> <<ha fatto bene, con questo tempo … arrivederci>>
<<arrivederci signora >>
Avvolta nella coperta, scendo in
fretta le scale che dal piano superiore della casa portano ai vani sottostanti,
entro in cucina e preparo la caffettiera, e mentre è sul fuoco corro in sala ad
accendere il camino, oggi Agnese non c’è, dovrò fare tutto da sola, e domani la
sentirò brontolare per il disordine che ho lasciato e che lei quando sono sola
in casa non si sente tranquilla ed è con il pensiero sempre a chiedersi:
mangerà?, dimenticherà qualche cosa sul fuoco?, starà al caldo?, tutte le volte
devo sorbirmi la tiritera che è stufa e che alla fine se n’andrà e poi vorrà vedere
come me la caverò. Non lo farebbe mai, anche se queste cose me le ripete tutti
i giorni, ormai da dieci anni.
Mentre
faccio la doccia rifletto sul libro che sto leggendo, mi domando che donna
infelice sia stata la madre di Giulietta Capuleti, Donna Capuleti, passata di
proprietà da un padre intransigente ad uno sposo attaccato alle tradizioni a
tal punto da sacrificare sua figlia ad esse. Questa donna che pende dalle
labbra di un marito onnipotente, che a tredici anni diventa moglie e madre e
che, annientata completamente nella sua personalità costringe la figlia a
diventare come lei, ammonendola ogni volta che si lascia andare ai sentimenti.
Mi
vesto in fretta, prendo la macchina e attraverso il traffico cittadino per
raggiungere il lavoro, come arrivo la segretaria mi dice che mio padre vuole
vedermi nel suo ufficio, sulla mia scrivania alle otto di mattina c’è già una
lunga lista di appuntamenti, tra cui un invito da parte di Federico Sorrentini
per il pomeriggio, vorrei evitare questo incontro. Squilla il telefono, è mio
padre che mi cerca ...
Come
sempre quando entro nel suo gabinetto privato ho un po’ di soggezione, lui
indossa un vestito scuro e la cravatta malva con il giglio fiorentino ricamato
in oro, dono della mamma e mio per il suo compleanno. Il busto dritto e
slanciato malgrado i suoi sessantacinque anni, i capelli ondulati perfettamente
pettinati, bianchi con i riflessi argentei come i baffi lo fanno sembrare un
patriarca delle ere antiche, dopo avermi baciata sulla fronte si accomoda alla
sua scrivania e con un’espressione pensosa mi dice: <<Cara Giulietta, mi
ha telefonato Federico Sorrentini e mi ha espresso il desiderio di
vederti>> tentenno un po’ con la voce, balbetto, ma mi riprende
dicendomi: <<ha organizzato una merenda alle cinque a casa di sua zia
Ester, avrai già sentito parlare di lei: è diventata famosa anni fa per le sue
presunte doti divinatorie, molto ricca lascerà a Fabrizio l’intera proprietà
poiché è l’unico erede. Se poi non ti aggrada frequentarli potrai sempre declinare
altri inviti, ma è giusto che a questo tu ci vada …>> e con un profondo
sospiro di disapprovazione poiché deve aver letto sul mio viso il rammarico a
partecipare a quella festa mi congeda. Esco dall’ufficio visibilmente
contrariata e senza pensare a quello che sto facendo chiedo in maniera
meccanica alla segretaria di avvisare l’avvocato Sorrentini che alle cinque
sarò a casa di sua zia. Quando prendo coscienza di ciò che mio padre riesce a
farmi fare senza che io riesca a controbattere provo un senso di frustrazione
tale che vorrei piangere, ma non posso perché intanto squilla il telefono e
soffocando un sussulto mi metto a lavorare.
Attraverso
a piedi l’incantevole rione dove si trova villa Sorrentini, ogni scusa è buona
per fermarmi: ora per accarezzare un grosso spinone nero che mi viene incontro
dalla direzione opposta, ora per bere dal lavatoio di pietra dove scorre
un’acqua fresca e limpida. I luoghi che ammiriamo lasciano tracce dentro di noi
e queste tracce registrate dalla memoria plasmano un luogo ideale.
Per
l’occasione ho trovato elegante preparare un cesto con dentro piccoli vasetti
di confetture e frutta sciroppata da regalare alla anziana signora che ha
organizzato questa merenda.
Marmellata
di mirtilli e caffè con zollette di zucchero servito in piccole tazze di fine
porcellana in una dolce sfumatura di bianco. Quando entro nella stanza si ode
un delicato tintinnio di posate. Attorno ad una tavola rotonda imbandita come
una natura morta, bottiglie di cristallo di Boemia, un cesto di vimini per
contenere il pane e la vecchia fruttiera liberty colma di arance e mele,
siedono due donne e tre uomini. La padrona di casa serve il caffè: ci riceve
nel suo tubino nero dove spicca un girocollo di perle d’una eleganza sobria,
dimostra circa settant’anni, ma si dice ne abbia di più: ha i capelli bianchi,
ondulati, gli occhi di un azzurro intenso. Alla sua destra in un vestito di
velluto nero è accomodata Maria Teresa Castelfrassino: aristocratica padovana
che anni fa mi volle come membro onorario nella sua associazione culturale, la
sua fondazione si occupa di difendere la cultura dalla mercificazione che come
dicono loro: <<… ormai imperversa, gettando l’umanità in una crisi di
valori spirituali>>, ora questa donna che ottuagenaria viaggia, fa
conferenze, riceve amici da tutto il mondo, disposta senza battere ciglio ad
alzarsi alle due del mattino per soccorrere un qualsiasi infelice che ha
bisogno d’assistenza, pronta a privarsi di un bene di famiglia per ricavarne
denaro al fine di aiutare un immigrato ad entrare nel nostro paese, diventò
stizzosa nei miei confronti quando le confessai di tenere nel portafoglio una
foto della mia nonna defunta, considerando la nostalgia per la nonna defunta
una debolezza umana e non un nobile gesto mosso dalla carità cristiana. Essa
racconta del suo viaggio sulla costiera amalfitana, interrotta dalle risate di
Federico che si diverte dalle sue imprese. Federico Sorrentini è un ragazzo
alto e magro vestito con una lunga giacca a redingote di pelle nera, sotto la
quale porta una camicia bianca che lo fa sembrare un signorotto del XVIII
secolo, ha la pelle curatissima, un’abbronzatura dorata come detta la moda, tra
me penso a quanto tempo quest’uomo deve passare davanti allo specchio, vicino a
lui c’è un signore grande e grosso che non conosco, con una barba brizzolata
che gli incornicia il volto paffuto, intento nel spalmare su fette di pane la
confettura che poi inzuppa nel tè. Alla sua sinistra Alessio Ferrini, un noto
architetto bellunese fa ciondolare sopra il tavolo un pendolo formato da un
cono in cristallo di rocca appeso ad una catenella d’argento. La luce della
stanza irradiata dal piccolo cono proietta sulle pareti arabeschi di colore.
Con gli occhi fissi sul pendolo che attraversa gli occhiali dorati dalla
montatura rotonda, Alessio fa riflessioni sul cono di luce e finge di non
notarmi mentre mi tolgo la giacca e mi accomodo a tavola su invito di Ester,
ponendo vicino al cesto del pane i miei vasetti di frutta.
Federico è felice di vedermi e lo
esprime con un tale impeto che mi imbarazza un po’ agli occhi dei presenti: si
alza da tavola e insiste per servirmi una tazza di caffè, togliendo alla zia
questo compito, poi mi bacia la mano, un gesto esagerato che poteva evitare,
infine sempre tenendomi la mano mi presenta all’uomo con la barba, che è un suo
collega di nome Matteo Accardi, gli altri invitati li conosco anche se è la
prima volta che partecipo ad un convivio con loro. La discussione si anima sul
dipinto di Felice Casorati che si trova nello studio di Ester: <<quello
era lo studio di mio padre, ora è il mio e quel quadro appartiene alla mia
famiglia da molti anni>> così lo descrive la padrona di casa: <<una
dolce melanconia, una grande pace, come se i sensi vittime di un incantesimo si
fossero addormentati. E’ bellissimo quello scorcio di campagna che si può
ammirare attraverso la finestra aperta che fa da sfondo ad una fanciulla colta
nella sua intimità. Il blu del cielo ed il blu dell’acqua dentro la scodella
posta sul tavolaccio di legno si fondono in un tutt’uno e poi le sfumature di
verde delle colline italiane. Idilliaco! non trovo nessun’altro
aggettivo.>> Ester parla con voce estasiata, sembra persa nei suoi
ricordi legati al quadro, Federico, suo nipote la osserva con avidità,
dall’espressione del suo volto sembra voler dire:<<Tutto questo un giorno
sarà mio compreso quel quadro prezioso>> intanto Matteo per
sdrammatizzare la solennità forse un po’ eccessiva con cui l’anziana signora
affronta l’arte propone un brindisi con questo motto <<seria è la vita, gaia
sia l’arte!>> scoppiando in una risata fragorosa che mette in allegria
tutti. Quando la discussione declina in un silenzio imbarazzante per tutta la
compagnia, Alessio propone una partita a scala quaranta che viene accolta con
un applauso, allora Ester ci invita a trasferirci in salotto, spiegando che lei
però preferisce non giocare, neanche io ho voglia di giocare con gran
disappunto di Federico che mi voleva in squadra con lui, malgrado le sue
insistenze preferisco tenere compagnia a Ester che mi invita nel suo studio per
interrogare i tarocchi su di me. Accetto incuriosita e divertita. Lo studio
della zia è arredato con alte librerie in legno che accolgono volumi rari e
sopra la massiccia scrivania c’è appeso il noto dipinto, in un angolo della
stanza, sopra uno scrittoio, vicino ad una lampada liberty c’è un uovo di
Fabergè dagli smalti turchini che ha al centro il ritratto di una bella
fanciulla, la nonna paterna di Ester.
Lei seduta alla sua scrivania, io
seduta di fronte, tira fuori dal cassetto un mazzo di carte e comincia a
mischiarle, poi mi invita a tagliare il mazzo in due con la mano destra e
rimischia le carte, la prima carta a uscire sul tavolo è la Regina di Coppe che
simboleggia la sposa, la madre, la donna dolce e devota, seguita dall’Imperatore
e dal due di spade, queste tre carte associate insieme significano amore
nascosto e infelice, mi viene in mente Giulietta Capuleti e la sua triste
storia d’amore, ma Ester va oltre: mi spiega, senza che io le abbia detto nulla
in proposito, il motivo del mio rifiuto a sposarmi e ad avere dei figli, questo
rifiuto è la causa di un legame sentimentale infelice vissuto in una vita
precedente, forse, Giulietta Capuleti rivive in me rifiutando ogni legame
sentimentale, come se la sua vita si riscattasse nella mia dal torto subito
nella sua.
Oramai è buio per le strade, mi
congedo dalla allegra compagnia che ha deciso di fermarsi lì a cena insistendo
perché rimanessi anch’io e ripercorro il borgo illuminato dai lampioni che
effondono nel viola della sera una luce ovattata.
Cammino sola e rifletto su me
stessa: a questo punto della mia vita sono arrivata alla consapevolezza che le
cose hanno un valore più profondo di quello che rappresentano, la gioia che mi
da questo viale alberato che attraverso per tornare a casa, il gorgoglio del
corso d’acqua, il canto del cuculo in lontananza, probabilmente sono nella mia
memoria da molto prima che nascessi.
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