martedì 10 luglio 2012

«Un’ospite a pranzo» il racconto per il concorso "Indagine su Giulietta" di Sonia Sarti


Per prima cosa stamattina dovrà mettere mano al macinato di carne.
Elena si è svegliata presto, come accade ogni volta che la giornata a venire si annuncia impegnativa,
e si è ripassata nella mente, come un compitino, i preparativi da svolgere per il pranzo.
Poche e semplici portate, ma curate anche nella presentazione. Il punto di forza sarà il polpettone, accompagnato da verdurine, che le riesce in modo eccelso, come a nessun altro. Tutto merito della nonna.
Il polpettone sarà preceduto solo dalla zuppa di zucca, leggera per poter apprezzare meglio la seconda portata.
Per l’occasione, sul tavolo farà bella mostra la tovaglia ricamata a mano con gli intarsi, da cui risalterà il sottotovaglia blu, che si abbina bene al bordo dello stesso colore delle stoviglie di porcellana bianca.
Ieri, al supermercato, ha comprato il necessario per il pranzo di oggi, ma non il macinato di carne. Quello lo ha acquistato alla macelleria. Glielo ripeteva sempre la nonna: “ Guai a fidarsi del macinato dei supermercati, con tutti quei tasselli bianchi di grasso. Non sai mai cosa ci hanno triturato. Dal macellaio scegli il pezzo della carne, ci fai aggiungere della carne di maiale magra, che dà sapore, e controlli che sia tutto  macinato due volte. Deve essere fino e rosso.”
Meglio alzarsi subito, prima che il compagno si svegli. E poi il polpettone deve restare qualche ora a raffreddare  per ottenere delle fette compatte senza sbreccature.
Sguscia dalla camera a piedi nudi, accosta la porta per bloccare il passaggio al più tenue filo di luce. Con passo da gatto raggiunge la cucina e appoggia la porta al battente senza produrre alcun rumore. Ora può accendere la luce e le dita calcolano la pressione sull’interruttore per evitarne il “tac”. Si lava le mani nel bozzetto del ripostiglio, da cui lo scroscio dell’acqua giunge attutito e infila un paio di ciabatte di stoffa. Tornata in cucina, alza il coprivivande e controlla la torta di mele sfornata prima di coricarsi. Sul pigiama indossa il grembiule, si dà una fregatina alle mani, fa un sospirone a pieni polmoni e si mette all’opera.
Versa in una terrina la carne macinata, rossa come le fiamme dell’inferno. Sicuramente la signora Giuliana si aspetta risotto, carne stracotta, polenta e pandoro. Spiacente, risposta sbagliata. Del resto non ne ha mai indovinata una riguardo a lei e alla sua vita.
- Una veneta!- aveva detto a suo figlio, - Una tutta lavoro e carriera. Separata e senza figli. Di sicuro non può averne, altrimenti a quasi quarant’anni…-
- Trentasei, mamma.-
- E io che ho detto? Quasi quaranta.-
Elena vi scoccia un uovo, giallo come la gelosia, e amalgama con il mestolo.
Spesso, per telefono, Giuliana raccomanda al figlio:- Roberto, fai le analisi del sangue, controlla il fegato. Lassù mettono il vino dappertutto. E non mangiare sempre polenta. Fatti una bistecca.-
Mai un pensiero per lei. Giuliana l’ha bandita dai propri registri verbali.
Elena aggiunge il trito di prezzemolo e aglio scacciastreghe e vi fa nevicare due manciate di Parmigiano grattugiato.
Ricorda il detto di sua nonna, risultato delle esperienze estive in Versilia: “Le signore fiorentine si riconoscono dalle altre toscane, dall’altezzosità.”
Con la grattugina spolvera un po’ di noce moscata, che inviperisce il sapore, e completa con una presa di sale.
Quando Roberto si era trasferito da lei a Verona, sua madre lo aveva avvertito:-Io, lassù in mezzo alla nebbia, non verrò mai.- Per due anni ha tenuto fede alla promessa.
Qualche domenica sono scesi loro a Firenze, ma in quella casa Elena si è sempre sentita un’entità senza forma né sostanza: avrebbe potuto non esserci e il risultato della considerazione sarebbe stato lo stesso.

E ora il tocco finale: una mollica di pane, raffermo come il rancore, che Elena inzuppa in una ciotola di latte. La mollica assetata lo assorbe con ingordigia, ma Elena la stringe quanto basta per eliminare il superfluo. Poi la sbriciola nell’impasto per disperderla bene. C’è ma non si deve sentire. Ci penserà il vino bianco, aggiunto a metà cottura, a cancellarne ogni indizio.
Mentre lava la ciotola e la ripone, Elena pensa di essere stata molto paziente. Ha incassato le frasi taglienti, gli sguardi di sbieco, l’indifferenza, grazie anche alla solidarietà di Roberto.
Raccoglie nelle mani l’impasto, rigirandolo fino a formare un cilindro, lo rotola su una carta cosparsa di pangrattato e lo picchietta per farne uscire l’aria intrappolata che ne comprometterebbe la consistenza. Intanto pensa che se Giuliana fosse stata una bambina si sarebbe meritata delle sonore sculacciate.
Adesso può aprire le serrande e rianimare l’appartamento. Dai vetri irrompe la luce dell’esterno, bianca come il latte, che non smentirà Giuliana: “Lassù non vedete mai il mondo, vi finisce a pochi metri.” Dipende dai punti di vista. Sua nonna era solita asserire “Siamo preziosi come il cristallo, quella è l’ovatta che ci protegge.”
A proposito di cristallo, Elena estrae dalla vetrina i calici delle occasioni importanti.
Quando l’hanno informata dell’incidente di Roberto e della mano che gli è stata ingessata, Giuliana ha recriminato contro l’Adige, il Po, la Pianura Padana e tutta la nebbia maledetta. Inutile cercare di convincerla che quel giorno splendeva il sole.
Elena infila nel frigo il Prosecco, che verseranno nei calici per brindare. Al bambino, che arriverà fra sei mesi.
Che faccia farà Giuliana? Quali parole, dure come schegge, riuscirà a scagliare pur di intaccare la sua gioia?
 Elena rigira delicatamente il polpettone che si rosola e diffonde il suo odore e pensa alla nonna, quando diceva sorridendo: ”Se vuoi avvelenare qualcuno, basta fare un polpettone così, poi dentro…”
Il veleno…non esageriamo…Elena non è un’assassina.
Le basta pensare che Giuliana trascorrerà la serata con uno strano disturbo di pancia, necessiterà di correre alla toilette in qualche autogrill. Darà la colpa alla nebbia, che compromette la digestione. Quella nebbia bianca a cui Giuliana ha intolleranza. Come al latte.

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