martedì 22 maggio 2012

«CIAO, IO SONO GIULIA» il racconto per il concorso Indagine su Giulietta di Lorena Marcelli


 3  Maggio 2012
Ciao, io sono Giulia e ho quattordici anni. Tutti mi chiamano Giuliè, ma non a causa del diminutivo. Quando ero piccola e qualcuno mi chiedeva “Dov’è Giulia?”, io rispondevo sempre “ Giu lì è” e così, da allora, sono diventata Giuliè. Mi chiamano così anche in classe. Frequento il primo anno al Classico. Abito in una grande città, in periferia. Non è un bel posto questo, per vivere. I palazzoni sono tutti uguali, costruiti negli anni settanta e mai ristrutturati. Sono tutti grigi e nei piloni il cemento cede e lascia in vista l’armatura di ferro, già arrugginita. E’ uno di quei quartieri ormai abitati solo da famiglie extracomunitarie. D’italiani ne siamo rimasti ben pochi. Mio padre è nato qui, tanto tempo fa, ma una volta, dice lui, il quartiere era bello, sicuro, adatto per le famiglie. Lui odia gli stranieri. Non parla mai con nessuno. Io, invece, ne conosco tanti, soprattutto i latinoamericani. Una delle ragazze del quinto piano viene anche a scuola con me. E’ brava; forse è anche più brava di me, soprattutto in italiano.
C’è una famiglia che mio padre non può sopportare. Li odia, li odia davvero. Credo che tutto sia iniziato qualche anno fa, per una lite in merito al bucato che la signora Romero stende sul balcone. Il continuo gocciolio dell’acqua che cadeva dai panni bagnati rovinò una camicia di mia madre, stesa al piano di sotto. In pochi minuti si scatenò una rissa e lui e il signor Romero vennero anche portati nella stazione di Polizia. Da quel momento non ha più voluto sentir parlare di quella famiglia.  Allora avevo nove, dieci anni, non ricordo bene, ma, per alcuni anni anch’io ho ignorato la famiglia Romero. Avevo paura di loro, di tutti loro. E’ una grande famiglia. Sono in sei. Vivono in un appartamento di settanta metri quadri e, spesso, mi chiedo come facciano a sopportarsi a vicenda. Sono allegri, rumorosi, giovani. I signori Romero hanno quattro figli, due femmine e due maschi. Sono nati tutti a distanza di due anni l’uno dall’altro. La maggiore ha ventidue anni. Il minore ne ha sedici. Solo due più di me.
Si chiama Josè Romero. Ci siamo innamorati, ma non lo posso dire a nessuno. Mio padre morirebbe dal dolore e dalla rabbia e mi vieterebbe di incontrarlo.
Sul mio blog (sì, ho un blog personale) non posso scrivere che amo Josè e non lo posso dire nemmeno alle mie amiche di scuola. Solo Amina, quella del quinto piano, lo sa, ma con lei sto al sicuro. Lei non parlerà mai con mio padre, anche perché lui non ha nessuna intenzione di rivolgerle la parola. Per parlare del mio amore mi rimane solo questo diario segreto, con la copertina di Barbie. La mamma me lo regalò il giorno in cui compii undici anni. Non l’avevo mai usato prima di questo momento. Lo trovavo ridicolo. La mamma non lo sa che esistono i computer, i social network, i blog. Lei è una vecchia romantica e pensa che carta e inchiostro siano il solo metodo da usare per scrivere. Forse ha ragione lei.

A scuola stiamo studiando Shakespeare. La settimana scorsa la prof. di lettere ci ha parlato di Giulietta e Romeo. Amina si è girata verso di me e mi ha teso un bigliettino piegato a metà. L’ho aperto senza farmi vedere dalla prof. e mi sono messa a ridere. Aveva disegnato un cuore trafitto a metà da una freccia e aveva scritto “Giuliè e Romero, la storia continua.”
Non ci avevo fatto caso, prima di quel momento, ma la coincidenza mi è sembrata davvero strana. Però io la fine di Giulietta non la voglio fare. Nemmeno per sogno.  Siamo nel duemiladodici e quelle cose non succedono davvero più. Però, per il momento, preferisco che mio padre non lo sappia.

Ho smesso per un attimo di scrivere. Josè ha fatto scendere la corda dal suo balcone ed io mi sono affacciata. Quello è il nostro segnale. La nostra storia è iniziata così, l’estate scorsa. Fa caldo in periferia. Non si sono parchi da queste parti e i pochi giardini sono incolti e sono terreno per lo spaccio. Non ci va nessuno. Non ci va nemmeno Josè, anche se mio padre pensa che appartenga a una famiglia deviata e con problemi. Ce ne stavamo sul balcone, io sul mio e lui sul suo. Prendevamo il sole, in costume.  Lui si affacciò e mi chiamò, invitandomi ad avvicinarmi. Lo guardai per un attimo e pensai che era bellissimo. Era in pantaloncini e aveva un fisico da urlo. Arrossii, ma lui non se ne accorse. Iniziammo a parlare e continuammo così per qualche giorno. Parlavamo dai balconi, ci conoscevamo così, in lontananza, chattando con la voce. 
Dopo, però, ci siamo conosciuti davvero e non ci siamo più lasciati. Oggi pomeriggio abbiamo parlato un po’ e ci siamo dati appuntamento per stasera. Ho il tram alle diciotto. Ogni giovedì vado al corso di disegno. Lui mi aspetterà alla terza fermata. Così nessuno potrà vedere che viaggiamo insieme.
Ora, però, smetto di scrivere. Devo finire uno dei miei disegni e poi mi devo preparare per il corso.


18 Maggio 2012
Non scrivevo da molti giorni. In due settimane è successo di tutto. Mio padre ha scoperto la storia con Josè e mi ha reso la vita davvero difficile. Però ho vinto io. Lo avevo detto che non avrei fatto la fine di Giulietta.  E’ successo tutto quel giovedì, sul tram. Ci stavamo baciando e non mi accorsi che mio padre era salito. Aveva trovato la sua auto con una gomma a terra e aveva deciso di tornare a casa con i mezzi pubblici. Forse è stato meglio che ci abbia scoperto lui. Io, forse, non avrei mai avuto il coraggio di dirglielo.
L’urlo che cacciò fuori spaventò tutti. Mi spaventai anch’io. Avevo riconosciuto la voce e non potevo credere che fosse davvero lui. Josè fu stupendo. Non si allontanò e non si scusò. Gli disse che mi amava e che non intendeva lasciarmi. Glielo dissi anch’io, ma mi beccai uno schiaffo. Me la diede mentre mi trascinava in casa e mi chiudeva nella mia camera. Chiusa a chiave, non ci potevo credere!  Mi tenne chiusa per due giorni, ma non mi tolse il cellulare. Che sciocco! La sera del secondo giorno Josè mi disse che sarebbe venuto a parlargli, insieme a suo padre. Lo fecero davvero. Ah! L’amore mio che uomo che è a sedici anni! Un vero uomo e mi ama. Mio padre fu costretto a riaprire la porta e a farmi uscire.
Ribadii, per l’ennesima volta, che io amavo Josè e che non lo avrei mai lasciato. Dissi a mio padre che doveva mettersi il cuore in pace e arrendersi di fronte all’evidenza. Gli dissi anche che, ormai, vivevamo in una società globalizzata e che non si dovevano fare distinzioni di razze o religione. Dissi che il suo punto di vista era completamente distorto e che l’amore è  amore, a quattordici o trent’anni.  Lui non mi rispose mai. Lasciò la stanza senza dire nemmeno una parola.

Non mi ha parlato per quindici giorni, ma,oggi, è entrato in camera e si è seduto sul letto, accanto a me. Sembrava diverso.
“Ne ho parlato con l’analista” mi ha detto, confessandomi una cosa che, qualche giorno fa, non avrebbe mai fatto.
“Abbiamo parlato di te e del tuo Romero. Il dottore ha sorriso nel sentire i vostri nomi. Giulia Caputi  e Josè Romero. Come Giulietta e Romeo e il loro amore contrastato. Mi ha consigliato di lasciarti vivere il tuo amore con la leggerezza dei tuoi anni e di non influenzarti con le mie paure. Ha ragione lui, Giuliè. Hai il diritto di vivere il tuo amore con la leggerezza che si ha solo a quattordici anni. Però mi raccomando, non fare sciocchezze” mi ha detto, passandomi una mano fra i capelli.
Quando è andato via, ho telefonato al mio Romero. Gli ho raccontato quello che era successo con mio padre e le parole che mi aveva detto. Lui è andato a comprare dei fiori per mia madre, poi ha suonato alla porta. I fiori erano bellissimi e mia madre li ha graditi molto. Ho chiesto a mio padre il permesso di uscire con lui. Voglio rispettare i miei genitori, in fondo sono ancora minorenne e mio padre, oggi, ha dato dimostrazione di grande rispetto ,per me. Mi ha trattata da adulta, ha tenuto conto dei  miei sentimenti. Il suo analista è davvero bravo, non c’è che dire. Ha fatto un ottimo lavoro con lui.
Sulle scale abbiamo incontrato Amina. “Ciao,novelli Giuliè e Romero”ha scherzato, mentre ci salutava. Anche lei sa tutto sulla  chiacchierata che ho fatto con mio padre. L’ho chiamata subito dopo aver parlato con Josè. Lei è la mia più cara amica.

19 maggio 2012
Oggi, a scuola, la prof. di lettere ci ha assegnato un tema. Il titolo era il seguente : “ Parlate della storia di Giulietta e Romeo e dite perché, secondo voi, il loro amore finì in maniera così tragica.”
Devo ammettere che il mio tema mi è piaciuto molto. Avevo tante cose da dire e ho scritto tantissimo, quasi sei facciate di foglio protocollo. Ma, soprattutto, mi è piaciuto come mi è venuto il finale. Lo devo scrivere anche qui, perché non voglio dimenticarmelo mai.
“Se ai tempi di Giulietta e Romeo fosse esistita l’ analisi cognitiva, forse , o quasi sicuramente, la storia avrebbe avuto un finale diverso. Proprio come la mia .”
L’avevo detto che non avrei fatto la fine di Giulietta.

venerdì 18 maggio 2012

«Giulietta e il cellulare» Il racconto per il concorso Indagine su Giulietta di Amelia Baldaro


Il cellulare vibrò per l’ennesima volta. Giulietta  lo afferrò  con rabbia. Guardò lo schermo che le confermò l’autore della chiamata. Gettò il telefonino  sul letto. E pianse di rabbia, paura, solitudine e impotenza. Ormai le telefonava  anche cinquanta,  cento volte al giorno e lui  si giustificava dicendo che era “amore”,  ma lei ormai aveva capito che il suo era un amore malato, un amore che portava dolore e non gioia. Si rannicchiò sul letto e tirò su il copriletto, all’improvviso sentiva freddo : la sua stanza non era più un rifugio sicuro, lui poteva raggiungerla anche lì dentro , in qualunque momento del giorno o della notte.
All’inizio era stato quasi bello: lui gentile, premuroso, romantico , le aveva fatto una corte appassionata. Lei travolta da tanto impeto , si era lasciata andare senza troppa  convinzione.
Teo era di buona famiglia,  studiava all’università e nel suo futuro c’era l’ingresso nello studio legale del padre.  Giulietta in qualche modo ne rimase incantata.
Ma con  il passare del tempo Giulietta iniziò  a provare una strana inquietudine a cui non riusciva a dare un nome o una spiegazione. Teo la incalzava, la forzava in ogni sua scelta, pianificava minuziosamente le sue giornate, facendola sentire prigioniera in una sottile ma resistente  ragnatela.
Provò a parlarne con la madre, che tagliò corto con un “è innamorato” che le troncò ogni ulteriore confidenza. Con suo padre non provò nemmeno, lui era contento che un ragazzo di così buona famiglia si interessasse di sua figlia: era la giusta sistemazione per la ragazza.
Il crepuscolo colorava le pareti della camera con un tenue colore rossastro, formando strani disegni. Giulietta li fissava, senza realmente vederli. Qual era la sua via d’uscita? Quale prospettiva aveva?
Il cellulare vibrò . La ragazza sobbalzò per l’ennesima volta e guardò sconsolata lo schermo. Stavolta però non era lui. Era Romeo. Rispose alla chiamata, o almeno cercò di farlo, riuscì soltanto a singhiozzare .
- Cosa succede? Stai male?- , la voce calda di Romeo le sembrò la zattera su cui issarsi proprio qualche momento prima di annegare nel mare della disperazione. E preso un lungo respiro, gli raccontò  tutto in un fiato, senza incertezze, senza pudore.  E a mano a mano che gli raccontava , sentiva che lui , d’altra parte del filo, con il fiato sospeso, la ascoltava e la capiva.
-         Sei andata alla polizia? Questo è stalking, lo sai? E’ un reato. I tuoi cosa dicono? –
-         Dicono che sono esagerata, che lui è un po’ impetuoso, ma tanto innamorato….-
-         Ora stai calma, stai tranquilla, ci penso io. Ma smetti di piangere, non sopporto di sentirti piangere. Ok?-
Giulietta annuì, poi si rese conto che lui non poteva vederla e allora sussurrò un “sì” pieno di speranza.
E lui , con audacia mai tentata prima la lasciò con un “buonanotte , amore” che lasciò Giulietta sorpresa e felice. Si raggomitolò sotto le coperte e si addormentò , dopo aver chiuso nel cassetto del comodino il cellulare che aveva ripreso a vibrare.
“Ci penso io” aveva detto; come , in che modo a Giulietta non importava. “Ci penso io”, aveva detto  e si aggrappò a quelle tre parole che dovevano essere la sua salvezza.
La madre la svegliò scuotendole piano i piedi, come faceva quando era piccola , per non spaventarla:
-         C’è Teo giù dal portone , ha detto che ti deve dire una cosa importante. Non vuole salire, dice che vuol parlarti da sola. Dai vestiti, non farlo aspettare..-
-         Ma che ore sono? – la ragazza si tirò su a sedere nel letto.
-         Sono quasi le 7 , dai ,che poi devi andare a scuola..- la incalzò la madre.
Giulietta  scese dubbiosa dal letto e si infilò in bagno: “deve parlarmi? Forse Romeo è riuscito a convincerlo a lasciarmi stare…Forse davvero è l’ultima volta “ e si riavviò i lunghi capelli. Si lavò denti e faccia e così come era, senza trucco, uscì dal bagno infilò i soliti jeans e la prima  maglietta che le era capitata fra le mani e uscì di casa.
Due rampe di scale , i gradini scesi a due a due, mentre il cellulare in tasca ancora una volta vibrava insistente.
Nell’atrio del portone Teo, bello nella t-shirt aderente che metteva in risalto le forme  armoniose. Lanciava sguardi irrequieti da una parte e dall’altra. Giulietta si fermò a pochi passi da lui.
-         Che vuoi? – gli gettò in faccia tutto il suo disprezzo.
-         Non mi rispondi quando chiamo, non vuoi uscire con me, ti sei forse dimenticata che sei la mia ragazza? Oppure c’è qualcun altro? –
-         Teo, devi lasciarmi in pace, ti prego- usò un tono conciliante, era già molto arrabbiato, lo vedeva e non voleva provocarlo.
-         Mi stai lasciando?- un sorriso terrificante gli apparve sul viso.
Giulietta rimase in silenzio . Quel silenzio a Teo  sembrò una conferma.  Tirò fuori all’improvviso il braccio che aveva tenuto in tasca per tutto il tempo. In mano stringeva un coltello . Si avventò addosso a Giulietta e continuò a colpirla, a colpirla , a colpirla, finchè esausto si accasciò accanto al corpo di lei , scivolato a terra  in posizione fetale. Non le aveva lasciato nemmeno il tempo di gridare. Guardò quello che aveva fatto e ne ebbe la consapevolezza. Gettò lontano da sé il coltello, si girò e cominciò a correre.
Nella corsa urtò un giovane. Lo spintonò infastidito e si allontanò mischiandosi alle persone che si avviavano alla fermata del bus. La città lentamente , quasi pigra, si stava svegliando. Lontano un clacson,  vicino il rombare di un motorino truccato.
Romeo in un lampo ebbe la certezza di essere arrivato troppo tardi. Rallentò i propri passi, ma ormai era arrivato e vide.
Vide la sua Giulietta  a terra. I lunghi capelli scuri a ventaglio attorno al  volto pallido, rannicchiata in una estrema inutile difesa. Romeo crollò in ginocchio accanto al corpo , inebetito; i suoi occhi incapaci di registrare la realtà di quella tragedia. Poi vide il coltello. Anche attraverso il velo di lacrime distinse chiaramente la lama insanguinata. Si alzò come in trance e raccolse l’arma. L’aveva amata in silenzio, aspettando fiducioso il momento in cui lei si sarebbe accorta di lui. Accontentandosi di un sorriso di sfuggita, di un saluto frettoloso al cellulare, delle due chiacchiere fatte prima di entrare in classe, di vederla passare sorridente insieme alle sue amiche. A poco a poco aveva visto il suo sorriso spegnersi, giorno dopo giorno il suo sguardo incupirsi. Sfioriva ,la sua Giulietta sfioriva come un bocciolo di  rosa strappato  alla pianta e lasciato a illanguidire in un bicchiere colmo d’acqua. Petalo dopo petalo fino a restare curvo su stesso , nudo e triste. Così lei. Aveva perso la gioiosa freschezza dei suoi sedici anni , ed era entrata nell’ombra senza età del dolore.
La sua strada l’aveva portata fino all’atrio del suo portone di casa, gettata sul pavimento sbiadito da anni di calpestio. Romeo non poteva lasciarla lì da sola, non poteva proprio. Impugnò saldamente il coltello e lo puntò deciso al suo cuore. Non avrebbe fatto troppo male: era già spezzato.

lunedì 14 maggio 2012

«INDAGINE SU GIULIETTA E ROMEO» Il racconto per il concorso Indagine su Giulietta di Luca Trovato


“Un brutto affare…” l’appuntato Priami scuoteva la testa guardando il suo superiore.
Come dargli torto? Il maresciallo Tosi sapeva che in quelle condizioni fare la professione del Carabiniere diventava un macigno. Distolse lo sguardo dai fogli che stava compilando e guardò la scena per cui stava lavorando: un incidente stradale mortale sulla via provinciale.
“La moto non ha colpe –diceva piangendo il camionista- La colpa è mia…solo mia… un colpo di sonno!”
“Valuteremo con gli accertamenti sanitari –rispose il maresciallo Tosi- Bisogna stabilire se, per caso, ha bevuto un bicchierino di troppo…”
Il camionista rimase sorpreso, guardò con sguardo attonito il militare per poi scoppiare a piangere di nuovo.
Non doveva essere stata una bella esperienza.
La dinamica era semplice: la moto viaggiava tranquilla verso l’esterno della città mentre il camion veniva dalla parte opposta. Ambedue avevano le luci accese, dopotutto era mezzanotte.
Una calda notte estiva che era diventata ancora più calda.
Il sangue per terra era rimasto testimone dell’accaduto e forse sarebbe stato un monito per il futuro prossimo: attenzione!
“Il camion ha perso il controllo… ancora bisogna stabilire come mai è successo… e quei due poveracci sono morti…speriamo che non abbiano sofferto!” l’appuntato sicuramente pensava ai figli ormai grandi e ai pericoli che li circondavano.
“Tra poco avremo il compito più duro…dirlo alle famiglie…” al maresciallo non era mai piaciuta questa parte del servizio. Quando qualcuno perdeva la vita bisognava avvertire i familiari.
Le persone apparivano sorprese solo dalla sua presenza, poi ansiose e infine, quando finalmente venivano messe davanti alla realtà, disperate.
Al maresciallo non piaceva questo compito ma qualcuno doveva pur farlo.
“Abbiamo i documenti di quei poveri ragazzi?”
“Diciassette anni marescià –l’appuntato stava sicuramente pensando ai suoi figli- Forse frequentavano la stessa scuola dei nostri figli…chissà…”
I militari dell’altra pattuglia si avvicinarono al superiore:
“Tra poco viene il carro attrezzi per la moto –avvertì uno dei due- la mettono nel deposito dove rimarrà sotto sequestro… il camion deve aspettare un po’… ci vuole un carro attrezzi più grosso…anche lui in magazzino!”
Il camionista si avvicinò al quartetto dei militari in modo sconsolato scortato da due paramedici.
“Possiamo andare via? La richiesta di analisi ce l’abbiamo…poi le faremo sapere” l’uomo coinvolto abbassò la testa imbarazzato. Il maresciallo lo scosse dolcemente per le braccia:
“Stia tranquillo signor Lorenzo Frati… sono solo atti dovuti. Io le credo che non abbia bevuto o peggio che non sia drogato… poi dopo l’aspetto in caserma. Verrà raggiunto all’Ospedale da una pattuglia.”
I tre si congedarono e l’ambulanza se ne andò mestamente verso il pronto soccorso.
“I mezzi sono sistemati –elencò il superiore ai suoi uomini che annuivano- i testimoni sono stati sentiti…le misure sono state prese… dopo, appena avremo i risultati dall’ospedale, concluderemo in ufficio… i corpi dei due ragazzi sono stati rimossi dopo aver avvertito il magistrato… direi che abbiamo fatto tutto!”
“Marescià –disse ironicamente l’appuntato Priami- manca il compito più brutto…”
Tosi deglutì rumorosamente, guardò negli occhi il suo dipendente e gli fece un cenno:
“Dai, leviamoci questo dente amaro…”
Salirono sulla macchina di servizio e si diressero verso la casa della prima vittima:
“Giulia Capulenti… via Verona n.14.”
Arrivarono subito. La casa distava pochi chilometri dal punto del sinistro stradale.
Vista l’ora i padroni di casa rimasero spaventati e sorpresi.
Il maresciallo, una volta aperta la porta di casa e trovatosi davanti a quelle due persone che ancora non si erano completamente svegliate, cominciò con una domanda classica:
“Siete i genitori di Giulia?” da qualche parte doveva pur cominciare.
I due annuirono, la madre si girò verso una porta chiusa e la indicò:
“È in camera…sta dormendo. Strano che non si sia svegliata…”
I due militari si guardarono imbarazzati.
“Signora…può accertarsi che Giulia stia dormendo?” forse era meglio assicurarsi che quel corpo martoriato fosse della figlia di quelle due persone svegliate nel cuore della notte.
La madre si allontanò titubante, bussò alla porta prima di entrare ma non ottenne risposta. Guardò i tre uomini rimasti sull’ingresso e si decise ad aprire uscendo subito dopo:
“Giulietta non c’è!”
Probabilmente in casa usavano questo diminutivo anche se ormai la ragazza non era più una bambina.
“Quel maledetto ragazzo le ha fatto perdere la testa –sbottò il padre di Giulia- e questi due signori in casa nostra sono la prova…”
“Che vergogna –si lamentò la madre- i Carabinieri in casa nostra…cosa ha combinato?”
“Mi state dicendo che la ragazza è scappata di casa?” il maresciallo rimase sorpreso.
Il padrone di casa si ricompose e fece accomodare i due. Il sottufficiale pensò fosse meglio parlare da seduti anche perché prima o poi avrebbe dovuto dare la notizia.
“Giulietta è una figlia modello –raccontò il padre- la sua vita era racchiusa nelle sue tre principali attività: scuola, dove andava benissimo, ballo, andava ogni giorno alla scuola di danza, e chiesa, faceva parte dell’azione cattolica…”
“Faceva?” Tosi sottolineò il verbo passato usato dal signor Capulenti.
“Si…faceva…” sospirò la madre di Giulia. Il padrone di casa fulminò con lo sguardo la moglie per poi continuare il racconto:
“Noi la vedevamo sempre chiusa in casa e abbiamo insistito a farla uscire…a frequentare i suoi coetanei… e arrivò quel giorno della festa in maschera!”
“Festa in maschera?” il maresciallo si sentiva un po’ in colpa per non aver detto immediatamente cosa fosse accaduto ma era diventato curioso come la sua professione consigliava di esserlo.
“La festa in maschera dove ha conosciuto quel meridionale…quel Romy…”
“Romy Montecci…” fece eco l’appuntato ricordando l’altro coinvolto nell’incidente.
“Lo conoscete? –esclamò il signor Capulenti- Non mi sorprende…lo sapevo che quello era un delinquente!”
“Lo conosciamo perché sua figlia e questo ragazzo hanno avuto un incidente stasera!” l’appuntato aveva parlato senza rendersi conto di aver detto loro il motivo della visita.
La donna sprofondò sul divano con lo sguardo assente e, appena incrociò gli occhi del maresciallo, capì che la figlia non c’era più.
“Mi spiace…” aggiunse Tosi. Spiegò loro cosa avrebbero potuto fare e la dinamica dell’incidente. Fece le condoglianze e guadagnò l’uscita a tempo di record. Appena fuori respirò profondamente: non gli piaceva proprio dare queste notizie.
“Ehi marescià –Priami sembrava quello a cui la storia non faceva effetto- andiamo dai genitori del ragazzo deceduto? Piazza William Shakespeare nr.3…”
 “Andiamo…” il maresciallo rimase pensieroso.
A casa del ragazzo capirono subito che fosse successo qualcosa.
La madre si strinse in un abbraccio doloroso con il proprio marito appena i militari dettero loro la brutta notizia. Cercarono di concentrarsi sulle parole del maresciallo che spiegava loro la dinamica dell’incidente e chi ne era coinvolto.
“L’amava veramente…” mormorò il padre del ragazzo guardando la moglie. Si fece forza nella sua disperazione e spiegò ai militari:
“Romy era un ragazzo dolce e molto sensibile. Rifiutava di essere un bullo come molti dei suoi amici… ma cercava di cambiarli. Ma una volta ha fatto a pugni…a scuola…. Con un ragazzo di nome… come era il suo nome amore?”
“Baldo… nome curioso e difficile da dimenticare…” rispose la donna.
“Somiglia a Tebaldo, il cugino di Giulietta….” Sussurrò l’appuntato sentito solo dal suo superiore.
Il signor Montecci continuò il racconto:
“Aveva conosciuto Giulia ad una festa… scherzavano sempre sul fatto che i loro nomi somigliavano a quelli di Romeo e Giulietta… e anche i cognomi…strano caso, vero? Ma il padre di lei non voleva questa unione, diceva che Romy non era un bravo ragazzo…che la stava rovinando… Ho sbagliato anch’io a dargli ragione visto che cercavo di convincere mio figlio a lasciare quella ragazza…”
“E così sono scappati…” aggiunse il maresciallo. Si stava delineando la storia dei due ragazzi.
“Colpa nostra –aggiunse la madre- Noi siamo siciliani e, da giovani, abbiamo fatto la fuitina…sa cos’è maresciallo?”
Il militare sorrise e recitò come leggesse:
“La fuga di una coppia di giovani aspiranti coniugi dai rispettivi nuclei familiari di appartenenza, allo scopo di porre le famiglie di fronte al "fatto compiuto" e inducendole a concedere il consenso per le nozze dei fuggitivi…sono meridionale anch’io…”
“Probabilmente volevano farla anche loro visto che ambedue le famiglie erano contro la loro unione…” le parole del padre echeggiarono amare e piene di pentimento.
“Mi spiace –replicò il maresciallo Tosi dandogli una pacca sulla spalla- Ormai è inutile ripensare a ciò che avete fatto…il fato ha deciso per loro…”
Mentre tornavano verso la caserma per finire la compilazione degli atti il maresciallo guardò il suo autista:
“Poveri ragazzi –commentò- hanno avuto dei nomi simili a quelli dei due protagonisti del dramma di Shakespeare… forse avrebbero dovuto immaginare che sarebbe finita con la loro morte…”
“Troppe somiglianze –disse ironicamente Priami- non mi meraviglierei che il miglior amico di Romy si chiamasse Mercuzio…anche se sarebbe strano chiamare uno così…”
Il maresciallo ricambiò il sorriso. Dopotutto sapeva che loro combattevano il dispiacere della morte, con cui avevano a che fare spesso, con l’ironia. Pensò a quei due ragazzi, al destino infame che li aveva raggiunti. Pensò alla loro felicità che speravano avrebbe preso il posto dei problemi che cercavano di lasciare dietro la strada che percorrevano.
Giulietta e Romeo erano morti.
Loro avrebbero potuto rimanere insieme per l’eternità.

martedì 8 maggio 2012

«VOLO 1523» Il racconto di Anna Maria Campello per il concorso Indagine su Giulietta


“Giulietta, Giulietta, vieni a mangiare, è pronto”
“No mamma, non adesso, più tardi caso mai”
“Come più tardi?  Ormai sono giorni e giorni  che mangi pochissimo, dici sempre così: più tardi, più tardi, dopo, dopo… Scaldo e riscaldo il cibo e lo ritrovo quasi intatto nel piatto. Non so più cosa cucinarti che ti possa piacere”.
Dopo pochi minuti che a Giovanna sembrarono un’eternità, con voce stanca e quasi lontana, Giulietta le rispose:  “non ho appetito da qualche tempo, è vero, però poi mangerò qualcosa”.
 “Ma non vedi come ti sei ridotta? Irriconoscibile, smagrita, pallida, non esci quasi mai se non per andare a scuola e poi stai sempre chiusa in camera tua, dici che studi, devi impegnarti per la maturità,  non rispondi al telefono se non alla tua amica Arianna. Se continui a rifiutare gli inviti  ed  ogni contatto che non sia strettamente collegato alla scuola, rischi di perdere le tue amicizie”.
Nessuna risposta questa volta. Giovanna non sapeva più come trattare questa amatissima figlia. A volte cercava la via della dolcezza, dell’accondiscendenza, altre volte cercava di scrollarla, smuoverla da quella specie di apatia che vedeva chiaramente la stava piano piano attanagliando. In preda all’angoscia, continuò questo strano botta e risposta, decidendo istintivamente di usare  il tono di una mamma alquanto severa e determinata a farsi ubbidire
 “Devi nutrirti di più, il mangiare è come la benzina per l’auto, se non metti il carburante la macchina si ferma. Non puoi andare avanti così e neppure noi. Non ti accorgi di quanto stiamo soffrendo nel vederti in queste condizioni?  Finirai per ammalarti e noi con te. Vuoi forse diventare anoressica? Già avevi voluto dimagrire l’estate scorsa perché quel ragazzo, come si chiama più, ah, quel Romeo ti aveva detto che avevi qualche chilo di troppo. Ora è sparito. Non telefona e non ti scrive da diverse settimane. Tu l’hai cercato ed il suo cellulare sembra un disco che s’incanta e ripete:  non è raggiungibile. E’ tutta colpa sua! Già mi è sempre stato antipatico, subito, la prima volta che l’avevo visto ed ora  è partito, > in cerca di fortuna<, dice lui, perché era stufo di fare qui il precario vita, per me invece è un perdigiorno. Poteva almeno tentare di cercare lavoro in qualche agenzia interinale, ci voleva soltanto un po’ di pazienza, di spirito di sopportazione ed ora tanti precari prima o dopo li regolarizzano. Invece no, niente da fare, cosa si è messo in testa lo sa soltanto lui! E’ un bel ragazzo, è vero, adesso ha l’aspirazione di entrare nel giro dello spettacolo e crede di poter in qualche modo sfondare in questo mondo che appare dorato dal di fuori, ma ci vuole altro per avere successo, oltre al talento ci vuole tanta, tanta fortuna! E’ andato ripetutamente a Roma, a Milano, provini su provini, prima per entrare nella Casa del Grande Fratello, poi ha tentato la carta di Amici, ma è stato sempre scartato. Sai quanti ragazzi come lui ci sono in giro al giorno d’oggi?   Ora è partito per Stati Uniti, tramite un suo amico emigrato da qualche anno a New York,  gli è stato promesso  un provino per l’eventuale scrittura in un musical a Broadway  ma secondo me forse farà la comparsa in film di sottordine”, magari in quelli a luci rosse”.  
“Mamma per favore  non mi dire queste cose, mi fai stare ancora peggio. Romeo per me era tutto: il sole, il mare, il cielo, con lui ero felice, mi sembrava di volare nel vento come un aquilone ”
Allora Giovanna corse ad abbracciarla con le lacrime agli occhi. “Perdonami Giulietta”.  Era già un po’ di tempo che non la stringeva fra le braccia come quando era bambina e rimase impressionata dal sentire praticamente ben palpabile, non le braccia, il corpo tornito di un’adolescente, ma l’ossatura quasi fragile di una persona già avanti con gli anni.
Senza aggiungere altro, con le lacrime agli occhi, decise che era il momento di prendere delle decisioni drastiche: aveva già riferito segretamente al medico di famiglia questa situazione anomala ed il dottore, con le dovute cautele era venuto a visitarla quando aveva accusato i primi malesseri che l’avevano costretta a non recarsi neppure a scuola. Per qualche giorno aveva accettato di assumere vitamine, un ricostituente. Si era sforzata di mangiare qualche cosina in più,  ma era stata un’apparente breve ripresa. Giovanna pensò che adesso  doveva assolutamente fare in maniera di portarla da uno specialista prima che la situazione peggiorasse ulteriormente,  pur se  Giulietta si era rifiutata quando ne avevano discusso Anche suo marito era molto preoccupato, era legatissimo a questa figlia, la piccola di casa, la sua dolcissima Giulietta. Da quando aveva conosciuto questo Romeo era stato un susseguirsi di vicissitudini. Non era solo un fattore di naturale gelosia per




questo ragazzo che, riteneva di aver capito, aveva fatto diventare  donna la “sua bambina” fino allora ingenua, spontanea, quasi timida, ben diversa da tante sue coetanee, già smaliziate e spesso sfacciate. Si, lo doveva ammettere non aveva nutrito troppo simpatia per questo ragazzo straniero, anche se ormai praticamente trapiantato in Italia da alcuni anni. In effetti non si chiamava Romeo, bensì Rashid. Era stato proprio Mario quasi scherzando a ribattezzarlo Romeo quando Giulietta l’aveva portato a casa per farlo conoscere, però Mario era ancora un po’ all’antica e pensava:  “moglie e buoi dei paesi tuoi” e poi, era rimasto ancor più perplesso ed ostico  quando lo aveva visto in spiaggia con parti del corpo ricoperte da  diversi strani tatuaggi che francamente detestava, così come i piercing. Giulietta, scherzando lo aveva quasi preso in giro dicendogli “ma papà in che mondo vivi? Sono di moda, praticamente quasi tutti i giovani ne hanno più di uno, anzi anch’io vorrei farmi disegnare un cuoricino con le iniziali G.R.”
 A quelle parole avrebbe voluto rispondere bruscamente, però decise di evitare discussioni che potessero peggiorare la situazione. Aveva sperato che questa storia finisse presto, che fosse un’infatuazione, invece si era reso conto che malauguratamente non era così.  Quando Romeo era partito aveva tirato un sospiro di sollievo, non immaginando che invece per Giulietta sarebbe stata una tragedia, soprattutto ora che da diversi mesi non ne aveva notizie.  
Il mattino successivo Giulietta ebbe un malore, non si reggeva sulle gambe, la debolezza per la carenza di cibo incominciava ad evidenziarsi e quello che riusciva a deglutire, se andava in bagno poco dopo, si capiva che non sarebbe stato digerito….I genitori, spaventatissimi chiamarono immediatamente il 118, ed il medico del Pronto Soccorso, dopo la visita, ne decise il ricovero immediato.  Purtroppo quello divenne l’inizio di un calvario di entrate ed uscite da un ospedale all’altro, con flebo di nutrimento e cure varie che facevano illudere in una ripresa, ma, senza il suo “Romeo”, Giulietta aveva perso la voglia di vivere.
Giovanna e Mario, disperati, cercarono allora di reperire gli  amici ed  i genitori di questo ragazzo, con la speranza di riuscire a contattarlo per spiegargli la drammatica situazione e convincerlo a ritornare, anche momentaneamente, fiduciosi ed illusi che per Giulietta, ormai purtroppo allo stremo, sarebbe stato forse l’input, l’unica cura per farla riprendere.
Non fu un’impresa facile, tuttavia riuscirono a rintracciarlo e Romeo, addolorato, sommariamente spiegò che le cose non erano andate come previsto, si era trovato in difficoltà, arrangiandosi in qualche modo ed aveva preferito lasciare Giulietta, piuttosto che tenerla legata ad un girovago come lui, ma l’amava sempre, non l’aveva mai dimenticata. Promise che avrebbe racimolato i soldi necessari per prendere subito il primo aereo disponibile.
Dopo una settimana si recarono all’aeroporto ad aspettare Romeo. Erano affranti, purtroppo avrebbero dovuto dargli una terribile notizia…, Quando finalmente arrivò l’aereo volo 1523, si alzarono per prepararsi all’incontro, ma tra i passeggeri ormai tutti sbarcati, stranamente non videro Romeo. Cosa poteva essere successo? Qualcuno prima di loro l’aveva avvertito? Non lo seppero mai….