martedì 4 settembre 2012

«AMORE E BRICIOLE» il racconto di Cristina Bardellotto per il concorso "Indagine su Giulietta"




La gita
I ragazzi caricano le valigie sul pullman.
La gita finisce qui.
Dopo un paio di notti insonni a vegliare nei corridoi dell’albergo, per evitare che la sfrenata fantasia degli adolescenti sfociasse nell’illegalità, mi sento distrutta.
L’idea della visita didattica a Venezia è stata del professor Costantin, che conosce la sua città d’origine fin nelle viscere e placa quella forma d’amore struggente, che è la nostalgia di casa, mettendo a punto ogni volta un itinerario diverso.
Mentre gli alunni si divertono, i colleghi intimano: mai più.
Ora, con il microfono in mano, fa l’appello.
Li chiama per nome.
Presente. Rassicurano.
“Saima?” chiede.
Nessuna risposta.
“Saima?”
“Non c’è, prof , Saima non c’è” risponde qualcuno.
“Come sarebbe a dire: non c’è?”
“Non è sul pullman, prof.”
“Non scherziamo!” taglia corto lui e poi mi si avvicina.
“Non faccio magie” lo anticipo, inquieta.
“Questo lo so” rimbalza lui. “Ma la conosci meglio di me.”
                        Certo che la conosco: è la mia alunna migliore. Di origine orientale, quando inizia a frequentare il nostro istituto deve ancora imparare la nuova lingua, ma è sempre allegra, studia con entusiasmo e tanta determinazione. Una rarità!
All’improvviso, compiuti i sedici anni e superato il termine dell’obbligo scolastico, è costretta dalla famiglia a lasciare la scuola, contro il suo volere.
Ma attende e, diventata maggiorenne, torna per ottenere il diploma di maturità.
Quando la rivedo, due anni dopo, ha gli occhi pieni di luce, pupille nere, brillanti, avide di conoscenza e ambiziose, di nuovo seduta dietro un banco.
“Costantin, manteniamo la calma, ho il suo numero di cellulare, posso chiamarla” suggerisco in modo perentorio.
“Va bene, come vuoi” acconsente. “Ai suoi compagni non risponde.”
A me, sì.
“Dove sei, Saima?”
“Sotto il campanile, prof, a San Marco.”
“Che fai ancora lì? Cosa succede?”
“Avevo delle briciole per i piccioni.”
“Mi aspetti?”
“Sì.”
E’ in mezzo alla piazza, avvolta nell’elegante abito turchese che la copre fino alle caviglie, magra, con il velo lasciato cadere sulle spalle e i capelli neri che luccicano e prendono il volo nell’aria inquieta. Non glieli avevo mai visti. Sembra un gigantesco volatile esotico, intento a nutrire i piccoli.
Quando la chiamo si volta e asciuga gli occhi.
“Chiedo scusa, prof, mi dispiace.”
“Anche a me. Vuoi dirmi qualcosa?”
“Ora no. Quando torniamo.”
A farla soffrire è qualcosa di grave. Non può essere una bambinata.


Cose che capitano
A casa è di nuovo routine.
La  sera mi rannicchio sul divano sotto una coperta leggera dell’Ikea.
Mio marito, messi a nanna Samuel e Rachele, si rifugia in studio.
            “Rispondo alle mail” mi convince, con quella lingua imperfetta, rubata un po’ all’inglese e un po’ all’informatica.
Io invece sono al telefono con Sara, mia sorella.
Parliamo di nostra nipote, una, tra le tante giovani donne, che si affacciano al balcone della vita amorosa, traboccanti di sogni e inesperienza, ignare del pegno, talvolta alto e ingiusto, che devono pagare per poter vivere in libertà i propri sentimenti.
Figlia di Gianmario, il fratello maggiore, abbiamo visto crescere Laura, mentre ancora, poco convinte, Sara ed io indugiavamo sulla scelta della nostra maternità.
Adesso è iscritta a medicina. Secondo anno.
Bella, con il viso ovale, gli occhi marroni e i capelli biondi, ha la pelle chiara e liscia dei bambini.
Da quando ha iniziato le sue prime storie d’amore, di cui parla anche alle zie con una sorprendente profusione di particolari, le suddette passioni hanno movimentato le nostre  chiacchierate telefoniche.
“Sara, hai in mente l’idiota che si è divertito con Laura, mentre negli stessi mesi usciva con un’altra ragazza, all’insaputa di entrambe?” chiedo, rivangando il passato.
            “Si, il divino Matteo, l’attaccante della squadra di calcio del quartiere” conferma mia sorella.
“Esatto! Il furbo è tornato a corteggiarla, dato che l’altra l’ha scaricato. Ma il fatto grave è che lei ne sembra lusingata e intenzionata a vederlo quando lo desidera.”
“Dopo tutto quello che le ha fatto passare, tra false promesse e tradimenti?”
“Dopo tutta quella roba lì.”
“E il recente fidanzato, presentato a tutta  la famiglia? Che ne sarà di lui?”
“Già, è una situazione a dir poco complicata. Ma tu, queste novità, da chi le hai sapute?”
“Da sua madre. Li ha visti gironzolare mano nella mano, proprio sotto casa. Al rientro ha  trascinato Laura di fronte al caos originario della sua stanza, dove i confini tra l’armadio, il letto e la scrivania sono impercettibili, a causa della quantità di oggetti sparsi che ricoprono tutto: libri aperti sul letto, calze penzolanti dalla cassa dello stereo, intimo da lavare dietro le tende, la collezione di smalti per unghie disseminata ovunque, collane e braccialetti sulla scrivania. Lì, di fronte a quello scenario post uragano, dopo averle intimato di riordinare subito, pena il sequestro del telefonino, ha ingiunto il diktat: divieto assoluto di vedere il giovane ex innamorato.”
“E la piccina come l’ha presa?”
“Piange.”
“Per una volta, però, approvo il rigore materno.”
“E’ un rigore labile.”
“E perché?”
“Perché non può tenerla chiusa in casa. Va a scuola, usa un telefonino, ha la sua vetrina su facebook  e ci sono mille possibilità di incontro con il doloroso amante.”
“Più appetibile, perché inviso ai genitori.”
“Appunto!”
“Una moderna Giulietta?”
“Meno tragica. Se decide di uscire con il ragazzo che, nonostante tutto, le fa girare la testa, alla fine la spunterà, senza troppo affanno.”
Ed è su questa profezia che ci sorprende, prima di salutarci, qualche attimo di silenzio.
Sappiamo senza dirlo che il passato è riemerso all’improvviso, come un relitto portato a galla dalle onde.


Anni novanta
Quando mia sorella Sara conosce Daniele, ha 23 anni. Sta per diventare biologa a pieni voti e ha una passione sportiva: la pallavolo. Gioca in una squadra importante della provincia di Milano, ma l’università e lo sport non le bastano: disciplinata com’è, si impegna anche nel volontariato con i clochard meneghini.
E’ l’orgoglio dei nostri genitori anche se, per falsa modestia, non lo danno a vedere.
C’è un solo neo: quel Daniele.
“Potrebbe almeno diplomarsi!” punge la mamma.
“Sì, è vero, forse lo farà” appiana Sara.
“A sentir lui è l’ultimo dei pensieri! Non vorrà fare tutta la vita il gestore estivo di rifugi in alta montagna?” incalza la mamma.
“Per oggi hai superato il limite!”inveisce Sara e se ne va, sbattendo la porta.
A quel tempo scambi di questo genere sono all’ordine del giorno.
Non è solo il mancato pezzo di carta che i genitori non digeriscono. E’ un po’ tutto di quel Daniele che proprio non va! E’ l’ostentazione di ricchezza che invece non c’è, o se c’è stata non ne è rimasto quasi nulla. E’ l’aprire il frigorifero come fosse a casa sua. E’ quel fumare incessante senza mai chiedere il permesso. E’ il non avere progetti seri per il futuro e, ancor di più,  è la sua faccia d’angelo che confonde; così bella, che Sara non vede altro.
Ma la sfida aperta con i genitori, per il suo Romeo, la gioca fino in fondo.
Trova un lavoro gratificante pochi mesi prima di laurearsi e va a vivere con Daniele.
I nostri genitori, lividi di rabbia, non partecipano alla discussione della sua  tesi di laurea, ottenuta con l’annunciata lode.
Lei, che ha annaffiato la sua ambiziosa carriera negli studi, con la stima, il sostegno e l’orgoglio dei due assenti, incassa il colpo, invitando tutti per la festa, nella nuova dimora. 
Mamma e papà, per sopportare meglio l’offesa, sono lontani.
Niente di grave.
Solo pochi anni e il nido sarà vuoto.
Sara e Daniele non si amano più.


Dopo la gita
            Saima non mi dice niente e per qualche settimana l’episodio accaduto in gita cade nell’oblio, almeno in superficie.
            Ma le assenze frequenti, in prossimità degli esami, così insolite per lei, lasciano presagire nuove difficoltà a casa.
            Eppure i buoni voti a scuola, la sinuosa disinvoltura dei suoi movimenti, l’eloquio sicuro, quelle dita che durante l’intervallo diventano gocce di una pioggia battente sulla tastiera del telefonino, non sono indizi negativi.
            Un giorno prende coraggio e all’uscita dalle lezioni mi si avvicina, per svelare il curioso mistero che la avvolge da alcune settimane.
            “Mi sono innamorata, prof.”
            “Questa è una buona notizia.”
            “Quella brutta è che la mia famiglia mi sta organizzando il matrimonio con un estraneo, un uomo del nostro paese, contro tutta la mia volontà.”
            “Santo cielo, come possono farlo?”
            “Di questo mi sono noti persino i dettagli. Conosco donne che hanno sopportato tale violenza tutta la vita. Io, però, negli ultimi tempi mi sono occupata di come impedire loro di farmi così male, affidandomi a una rete di associazioni, servizi sociali e legali, che hanno trovato la soluzione. Non posso rivelare nulla prof. Da qui il mio silenzio.”
            Quel mutismo felice contagia anche me, che l’abbraccio senza dire una parola.
Ora Saima è lontana dalla famiglia, ma ha portato via con sé un bel bottino: l’agognato diploma di maturità e la speranza di un amore autentico.
Mica briciole. Quelle ai piccioni.


                       









«LIETO FINE» il racconto di Valentina Meloni per il concorso "Indagine su Giulietta"



«Oh Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre e rifiuta il tuo nome. O, se proprio non vuoi, fa soltanto di legarmi a te con un giuramento d’amore, ed io non sarò più una Capuleti.»
Le luci del teatro diventavano sempre più flebili. La luna di cartone riciclato, argentea, dominava sulla testa dei due amanti: Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti, ne illuminava il volto e la muscolatura. Il balcone era splendido, in marmo finto, ornato da mille fronzoli, opera di un ottimo scenografo. Un’altra Giulietta Capuleti era presente in sala. Era lei l’ospite d’onore. Solo in sua lode era stata messa in scena la famosissima tragedia di Shakespeare. Ebbene, una donna importante come lei, direttrice di una delle catene più importanti della cosmesi italiana, aveva deciso di perdere un po’ del suo tempo per vivere l’avventura amorosa della sua cara cugina omonima Giulietta. Voleva sentire il sangue caldo dei due amanti scorrere nelle sue vene. Rubare un po’ della passione che aveva ucciso la dolce Capuleti quindicenne. Plasmare la sua anima sotto quella luce. Strinse i pugni, appoggiati sui braccioli della poltroncina. Sarebbe stato un omaggio al suo matrimonio. Un modo per dire: “Voi due non avrete mai un finale così tragico ma il vostro amore è forte tale e quale a questo”. Già, si sarebbe sposata presto con l’uomo più ricco della sua città, se non di tutte quelle d’Italia messe assieme. Sarebbe diventata ancora più importante di quello che era tuttavia si trovava ben lontana dalla realtà vissuta dall’adorabile cugina tutta latte e miele. Spostò lo sguardo dal palco alla poltroncina accanto alla sua. Era vuota, ovviamente. Ancora una volta lui per lei non era presente.
«E’ soltanto il tuo nome a essermi nemico: tu saresti sempre te stesso, anche se non fossi un Montecchi. Che può mai significar la parola “Montecchi”? Non è una mano, non un piede, non un braccio, né un volto, né alcuna parte che s’appartenga a un uomo. Oh, sii qualche altro nome! Che cosa c’è in un nome? Quel che noi chiamiamo col nome di rosa, anche se lo chiamiamo d’un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo. E così Romeo, pur se non fosse chiamato più Romeo, serberebbe pur sempre quella cara perfezione che egli possiede tuttavia senza quel nome. Rinuncia dunque al tuo nome, Romeo, e in cambio di quello, che pur non è alcuna parte di te, accogli tutta me stessa.»
D’un tratto un brivido le percorse la schiena, la quale rizzò. E lei si stava aggrappando a un nome? Desiderava che il profumo di quella rosa che si chiama rosa fosse tale a come era già, oppure la sua essenza l’avrebbe voluta contraria a quella che era? Aveva vissuto tutta una vita tesa al guadagno fin quando non si era accorta che nella sua vita mancava un sentimento vero per realizzarsi. Leggeva ripetutamente sui manoscritti conservati a casa sua quanto l’amore tra Romeo e Giulietta avesse rivoluzionato la vita delle loro famiglie, quanto il loro fuoco avesse bruciato ogni ostilità e il loro sacrificio portato pace e beatitudine. Allora si era messa alla ricerca del vero amore, quello duraturo, che avrebbe donato più che ricevuto. Una notte di dicembre di due anni fa pensava di averlo finalmente raccolto e intrappolato nella sua rete ma solo ora si accorgeva che era stata lei il pesce che aveva abboccato all’amo. L’uomo che diceva d’amarla non le aveva mai dato quello che Romeo, seppure interprete in quella tragedia, dava a Giulietta. Perfino due attori da quattro soldi recitavano meglio di lei e il suo futuro marito. Durante il corso della loro relazione aveva imparato ad abbassare la testa e fare quello che comandava perché a lui doveva tutto: il suo lavoro, la sua felicità, il suo amore. Gli voleva bene. Davvero tanto. Lo adorava in ogni singolo gesto che faceva come se fosse stato un simulacro d’oro, splendente nella sua bellezza. Ma lui non l’aveva mai apprezzata realmente. Ricordava chiaramente la prima volta che la  mano di lui aveva battuto sulla sua faccia “accidentalmente” aveva detto lui. Due mesi dopo i lividi erano moltiplicati e il trucco era l’ unica maschera per difendersi dagli occhi della gente. Alzò la manica del maglioncino. Una sfumatura violacea regnava sovrana, indelebile, per ricordarle quanto male aveva provato. Non aveva mai battuto ciglio, mai una reazione di troppo. Pensava seriamente che il problema fosse proprio; era lei che non riusciva a dare abbastanza affetto all’uomo a cui doveva tutto infatti quelle reazioni così violente e opportuniste con gli altri, i suoi colleghi e i suoi amici, non le aveva. Era lei il pezzo errato del puzzle che stavano componendo. Eppure, quell’istante, le parole di Giulietta, erano state folgoranti per lei. Un fulmine a ciel sereno! La gente che li vedeva da fuori diceva: “Che bella coppia” oppure “Il vero amore esiste” e lei ci aveva creduto. La faccia limpida del suo fidanzato non smascherava alcun peccato commesso sopra il suo corpo. Neppure i suoi genitori si erano accorti dell’uomo che era. I futuri sposi potevano definirsi dei pessimi attori in privato ma degli ottimi in pubblico! I suoi parenti lo lodavano e lei, infiacchita dal suo amore, aveva perso ogni granello di dignità e orgoglio che aveva. Ma era giunto il momento di cambiare. La risposta alle domande che si era fatta per mesi se davvero stesse agendo per il verso giusto, si era manifestata quel giorno, in quella rappresentazione. E lei sarebbe morta per il suo Romeo? Oltre al corpo, alla mente e all’accondiscendenza alla rabbia che covava, gli avrebbe donato anche la sua giovinezza? C’erano un solo Romeo e una sola Giulietta scritti nella storia della propria famiglia. Lei non aveva avuto la fortuna della cugina come i suoi genitori, ammaliati dalla favola della loro ava, volevano farle credere. Erano diventati ciechi a causa del demone di Amore ma i suoi lividi, sulle braccia, sulle gambe, sul suo viso, gli avrebbero fatto rivedere la luce.
Sui suoi occhi si dipingeva l’espressione di Giulietta Capuleti-attrice morente. Era arrivata a quel punto la tragedia. Abbassò lo sguardo, prese coraggio e con uno scatto si alzò. I primi borbottii riguardo il suo atteggiamento iniziarono ad aleggiare in sala. Si chiedevano probabilmente cosa stesse succedendo, come mai si fosse destata proprio in quel momento dell’opera così cruciale per la rappresentazione in atto. Giulietta si disfò della coperta di critiche e pregiudizi, prese la borsetta e con passo veloce si diresse verso l’uscita. Tutto si fece silenzioso attorno a sé. Solo il rumore dei tacchi picchietta nella propria mente con fare insistente e scandagliava il tempo che le mancava per esserne definitivamente fuori. I pensieri in testa erano come un fiume in piena che avrebbe abbattuto ogni cosa che avrebbe trovato lungo il proprio corso. Finalmente il coraggio di dire la verità era diventato il suo unico possessore ma la sua anima ribelle d’un tratto sbatté contro qualcosa. O qualcuno. Possente nella sua statura e fiero nell’animo, il suo fidanzato era lì davanti a lei. Era vestito del solito sorriso smagliante e con le braccia aperte la invitava a tornare al proprio posto. Se la gente attorno avesse avuto la capacità di decifrare il suo sguardo avrebbe capito che quello che diceva rivolto a lei, Giulietta, era: “Siediti che a casa facciamo i conti” ma ciò che realmente recepivano era solo: “ Cara, che succede?”. Lui le fece cenno di notare che stavano guardando e giudicando ogni minima loro azione. Giulietta si sentiva di nuovo piccola e inutile. Dov’era finita la donna forte di un tempo? Quel fiume in piena di energia non poteva essersi prosciugato in così poco tempo a causa di un uomo.
Per la prima volta nel lasso di tempo che li attorniava, i suoi occhi mirarono a quelli del futuro marito, del suo “Romeo”. Uno sguardo truce si dipinse sul suo volto. Non si sarebbe mai più fatta mettere i piedi in testa da un essere tanto inutile e nocivo per il mondo. L’uomo le cinse un braccio dolcemente per portarla a sedere come a far sembrare che lei fosse una malata di mente e lui il suo medico di fiducia pronto a offrirgli sostegno. In quel preciso istante Giulietta capì: la sua redenzione iniziava da ora. Si liberò dalla morsa del mostro e lottò con tutte le sue forze per scappare via; gli occhi puntati su di lei non le importavano, non più ormai, anzi! La deliziavano le pupille dell’ex ragazzo che si dilatavano sulla sua figura e la osservavano incredule.
Finalmente raggiunse la sala di ingresso al teatro. Per lei significava “USCITA”, fine di un capitolo della sua vita orribile, libera da una gabbia d’oro che l’aveva tenuta imprigionata anima e corpo per anni. A un tratto il suo piede calpestò un bigliettino pergamenato. Sembrava di antica fattura.
Si leggeva:

“L'amore è bensì una nebbia sollevata con il fumo dei sospiri e, se questa si dissipi, è un fuoco che sfavilla negli occhi degli amanti e se, sia contrariato, non è che un mare nutrito dalle lacrime di quegli stessi amanti. E che cos'altro può mai esser l'amore se non una follia molto segreta, un'amarezza soffocante e una salutare dolcezza?”

Accanto vi era una boccetta di plastica, stretta alla bocca e più larga man mano che si scendeva verso il fondo, rovesciata. A terra un liquido violaceo rendeva scivoloso il passaggio. Prese la boccetta e ne annusò l’interno. Un odore acre le riempì le narici ma subito le fece intuire il contenuto. Era veleno. Una risata, la sua, forte, ricca di odio, felicità, amore , asprezza e liberazione animò la sala tutta. Aveva vinto lei. Sciolta da ogni legame di schiavitù verso l’amore cattivo, che avvelena il sangue, e il mostro che l’aveva alimentata, si apprestava a vivere una vita che mai più avrebbe avuto sfumature bianche o nere ma piene di tinte sfavillanti e al massimo, nei periodi bui, di grigio ma in nessun caso del colore delle tenebre. Per anni si era chiesta come potesse assomigliare a Giulietta Capuleti in carattere, dato che tutti la comparavano al suo spirito; che cosa avesse di quella ragazza così dolce e troppo attratta dall’amore. Ora lo capiva perfettamente. Erano propri il coraggio e la determinazione e seppure entrambe li avessero fatti emergere in due occasioni completamente opposte, rimanevano comunque parte della stessa anima. Forse, l’antica Giulietta Capuleti viveva in lei.


«InshAllah» il racconto di Manuela Corsino per il concorso "Indagine su Giulietta"



Il burka lasciava intravedere solo gli occhi della donna, scuri e profondi. Il resto della sua figura, infagottato in strati di stoffa scura, non si riusciva neppure ad immaginare. Portava uno zaino sulle spalle e da quello si poteva supporre che fosse una studentessa che andava a scuola.
Erano appena le 7.30 quando attraversò l'atrio dell'Istituto Vinci dirigendosi verso i bagni. Ne uscì dieci minuti dopo completamente trasformata. Si era tolta il burka e indossava dei jeans e una t-shirt come tutte le sue coetanee. Si mescolò alla folla di studenti e si diresse verso la 3A.
-Ciao Rim– la salutò la sua compagna di banco –lo sai che domani è il compleanno di Sara e che ha organizzato una festa a casa sua? Ha invitato tutta la classe-
Rim la guardò in silenzio ben sapendo che lei a quella festa non ci sarebbe potuta andare
-Hai sentito quello che ti ho detto Rim? Una festa.. Domani pomeriggio-
-Io non posso venire-
-Perché no?-
-Devo badare alle mie sorelle- mentì
Elena non poteva capire. Lei non era musulmana. Lei non era già stata promessa in sposa ad un cugino che nemmeno conosceva. Lei era libera di vivere con spensieratezza i suoi sedici anni.
-E dai! É solo un pomeriggio! Non puoi chiedere a tua mamma di lasciarti libera almeno un pomeriggio?-
-Ci proverò– rispose sapendo che ci sarebbe voluto un miracolo. Per tutto il pomeriggio si arrovellò in cerca di una scusa che le permettesse di andare alla festa. Alternava momenti di euforia in cui le sembrava di aver trovato una soluzione ad altri di profonda frustrazione in cui era sicura che suo padre non ci sarebbe cascato. Poi verso sera arrivò un inatteso colpo di fortuna. Zia Amina telefonò.
Rim sentì suo padre parlare in arabo. Quando la telefonata terminò lui la guardò e le disse – tua zia ha bisogno di té per sistemare il giardino. Ti aspetta domani pomeriggio dopo la scuola-
–Sì padre– rispose abbassando umilmente lo sguardo in segno di sottomissione.

Sua zia abitava in una vecchia villetta a schiera vicino all'ospedale. Per arrivarci Rim dovette cambiare tre autobus. Non era la prima volta che andava a trovarla. Da quando era rimasta vedova zia Amina viveva sola e ogni tanto la invitava con qualche scusa per trascorrere un po' di tempo con lei. Anche quella del giardino doveva essere una scusa, constatò Rim osservando che le aiuole della zia erano ben curate e che nel prato non cresceva una sola erbaccia.
Suonò il campanello.
–Rim! Nipote mia!- la accolse sua zia abbracciandola –sono settimane che non ci vediamo. Da quando ti ha trovato un marito, tuo padre trova mille scuse per impedirti di venire a trovarmi-
Rim sospettava che suo padre non volesse mandarla dalla sorella perché temeva la influenzasse negativamente. Da quando era rimasta sola zia Amina si era per così dire "occidentalizzata" e la cosa non era piaciuta alla sua famiglia. L'unico con cui manteneva ancora qualche rapporto era suo fratello Mohammed, il padre di Rim.
-Allora piccola che mi racconti?-
Rim decise di dirle immediatamente della festa e con sua grande gioia la zia non ebbe nulla in contrario a farla andare –peccato!- le disse mentre l'accompagnava alla porta  –avevo sperato di trascorrere il pomeriggio con te ma sarà per un'altra volta... dopotutto il mio giardino è grande e non puoi mica sistemarlo tutto in un solo pomeriggio...vero? Chiederò a tuo padre di mandarti qui anche la settimana prossima così mi racconterai come è andata la festa-
-Grazie zia, sei fantastica!- le disse Rim abbracciandola.

Quando arrivò a casa di Sara la festa era già iniziata da un po'. Nel vederla Elena le corse incontro sorridendo –Rim! Ce l'hai fatta a venire. Sono contenta! Ci sono tutti e c'è anche qualche ragazzo di quinta laggiù, vedi?-
A Rim i ragazzi non interessavano. Voleva solo divertirsi ballando e trascorrendo il pomeriggio come una qualsiasi adolescente della sua età. Si buttò in pista e ad occhi chiusi si lasciò trasportare dal ritmo della musica svuotando la mente da ogni pensiero. Si sentiva libera e felice.
Ad un tratto il ritmo cambiò e la musica divenne lenta. Rim aprì gli occhi e si trovò davanti un ragazzo che la osservava sorridendo. Sussultò.
-Scusa, non volevo spaventarti– le disse lo sconosciuto –ma eri talmente bella così concentrata nel ballo che non volevo interromperti-
Rim si guardò attorno imbarazzata in cerca di un viso familiare. Tutte le sue compagne però stavano ballando.
-Balli?- le chiese lo sconosciuto.
-Non ti conosco– rispose Rim sulla difensiva, maledicendo se stessa per quella frase.
-A questo possiamo rimediare. Mi chiamo Alex e sono il fratello di Sara-
-Io sono Rim– rispose impacciata.
-Allora Rim mi concedi questo ballo?- le chiese abbozzando un inchino.
Lei esitò ma lui non si diede per vinto e con gesto deciso le prese una mano e la condusse al centro della pista in modo che non potesse fuggire via. Poi l'abbracciò e iniziarono a ballare lasciandosi cullare dal ritmo lento della musica. Rim non era mai stata così vicina ad un ragazzo. Poteva sentirne il profumo e avvertiva il calore del suo corpo attraverso la sottile stoffa delle loro t-shirt. Si abbandonò tra le sue braccia lasciando che lui la stringesse sempre di più. Sentiva la sua mano sulla schiena e per un attimo desiderò che il tempo si fermasse in quell'istante. A fermarsi fu invece la musica. Sara annunciò che in giardino c'era da bere e da mangiare e tutti si riversarono fuori lasciandoli soli.
-Hai fame?- le domandò senza sciogliersi dall'abbraccio.
Rim fece segno di no con la testa. Sapeva di trovarsi in una posizione sconveniente per una ragazza musulmana ma non le importava.
-Sete?-
Rim scosse il capo per la seconda volta.
-Io invece sì– le disse Alex fissandola negli occhi –ho sete di te– e con un movimento estremamente lento si chinò su di lei e le baciò prima gli occhi, poi il naso, infine le labbra.
Fu un bacio lento e delicato che a Rim fece venire i brividi lungo la schiena. Quando alla fine Alex si staccò da lei, Rim rimase ferma con gli occhi chiusi e le labbra protese in attesa che lui ricominciasse. Il bacio tanto atteso anziché sulle labbra si posò sulla punta del suo naso e la costrinse ad aprire gli occhi. Lui la guardava e le sorrideva –usciamo a mangiare qualcosa?-
Rim avrebbe tanto desiderato restare un altro po' ma era tardi e doveva tornare a casa prima che suo padre iniziasse a sospettare qualcosa -ti ringrazio ma ora devo andare, ho promesso a mia madre che l'avrei accompagnata in centro – mentì.
-Ci vediamo domani pomeriggio?-
-Domani devo studiare-
-Allora verrò a prenderti all'uscita di scuola e ti accompagnerò a casa-

Nei mesi seguenti Rim con la complicità di zia Amina riuscì a frequentare Alex, anche se non con la continuità che il ragazzo avrebbe voluto. Inventava bugie su bugie a casa e con Alex. Gli aveva fatto credere di essere una ragazza come le altre. Lui neppure immaginava tutto quello che doveva architettare per riuscire ad incontrarlo. Rim temeva che se l'avesse saputo, non avrebbe più voluto vederla. Una storia con una musulmana poteva essere troppo complicata per un ragazzo occidentale. Ogni giorno Alex la riaccompagnava a casa in macchina dopo la scuola e Rim sfruttava il tempo guadagnato abbandonandosi a tenere effusioni nel parcheggio distante una cinquantina di metri da casa sua. Aveva fatto credere ad Alex che viveva nel palazzo di fronte dove, dopo averlo salutato, entrava per rifugiarsi nel sottoscala ed indossare il suo burka prima di rincasare.

Un giorno verso la metà di maggio Alex le disse che doveva partire per lavoro. Sarebbe stato via un mese. Prevedeva di tornare verso la fine della scuola. Gli occhi di Rim si riempirono di lacrime
-Ehi che c'è? Dopotutto è solo un mese...-
-Niente, è che già mi manchi-
Quel giorno Rim rientrò a casa con un brutto presentimento. Seduti in salotto ad aspettarla trovò i suoi genitori insieme ad uno sconosciuto.
–Rim! Vieni!- le ordinò suo padre appena entrò -Ti presento Moustafa, il tuo futuro sposo– le disse indicando l'uomo accanto a sè –starà da noi fino alla fine della scuola, poi andrai con lui in Marocco per sposarti-
Sconvolta Rim rimase in silenzio finché non le fu possibile rifugiarsi in camera sua.
Pianse per il resto del giorno e per tutta la notte. Non vedeva via d'uscita. Si sentiva in trappola. Avrebbe voluto parlarne con Alex  ma lui era partito. Nei giorni seguenti si comportò come se nulla fosse. Aveva deciso che piuttosto che sposare quell'uomo si sarebbe uccisa ma non ce ne sarebbe stato bisogno perché presto sarebbe fuggita con Alex.
L'ultimo giorno di scuola suo padre venne a prenderla insieme a Moustafa e a sua madre.
-Che succede?-
-É ora di partire. Vi accompagno all'aeroporto-
-Adesso?-
Non ci fu risposta. Tre ore dopo Rim guardava le case che si rimpicciolivano sotto di lei e insieme a loro sentì fuggir via anche ogni speranza di essere felice. Mormorò una sola parola”InshaAllah” prima di rassegnarsi al suo destino con la consapevolezza che il ricordo del suo amore avrebbe alimentato ogni istante che le rimaneva da vivere.

«Desiderio» il racconto di Serena Zampolli per il concorso "Indagine su Giulietta"


Scuola elementare “G. Crollalanza” di Verona Classe 4° B

Compito di italiano

Consegna: Scrivi un testo continuando la frase “Se potessi esprimere tre desideri vorrei …”

Se potessi esprimere tre desideri, vorrei un animale. I miei genitori mi comprano tutto quello che voglio, ma questo animale non si trova nei negozi. Si chiama "clamidoforo troncato". Lo conosco perché è in un libro che c'è nell'ufficio del mio papà. Ci vado il venerdì dopo danza, siccome è il giorno libero della balia, ma non è che papà può smettere di lavorare solo perché ci sono io e allora mi fa scegliere un libro dalla libreria e io posso sedermi sul divano e leggere. L'Enciclopedia degli Animali è il mio libro preferito. Ci sono tutti gli animali del mondo! Il clamidoforo è il mio preferito perché è pelosino, grigio e rosa e ha un musetto intelligente. Se lo avessi, sarebbe il mio migliore amico.
Il secondo desiderio lo userei per la balia. Lei mi piace tanto e ci passo un sacco di tempo. Secondo me alla mia vera mamma un po' dispiace che passo più tempo con la balia che con lei, però penso che è anche colpa della mia mamma perché non è mai a casa! La balia è sempre sorridente e è stata triste solo quando Susanna, che era la sua bambina, è morta. In questo periodo è triste di nuovo perché suo marito è ammalato. Lui è simpaticissimo e quando ero piccola mi faceva sempre gli scherzi per farmi ridere. Allora il mio secondo desiderio sarebbe che il marito della balia guarisce.
Il mio terzo desiderio è che io posso controllare il tempo. Vorrei che il tempo fosse sempre come quando ti diverti e mai come quando ti annoi. Così potrei farlo andare veloce quando faccio tutte le cose noiose, come lezione di pianoforte, e farlo andare lento quando faccio le cose che mi diverto, come quando la balia mi racconta le favole delle principesse che alla fine vivono felici e contente.

Giulietta Capuleti




Cara Susanna,
vorrei che tu rimanessi bambina per sempre. Vorrei avere il potere di fermare il tempo e poterlo bloccare adesso, che hai nove anni. Vorrei non dovessi crescere mai. Perché così non conosceresti mai il dolore.
La vita è crudele, Susanna. E’ dolorosa. Le persone ti feriscono, ti umiliano, fingono di amarti per ottenere da te qualcosa per loro. Lo devi sapere, bambina mia, lo devi sapere adesso che sei ancora in tempo per salvarti.
L’innocenza e la speranza che sono in te adesso verranno calpestate e uccise, come è successo a me. Io non voglio che questo accada. Io non voglio che anche tu debba soffrire come ho fatto io. Ho solo ventitré anni e ho già una figlia e un matrimonio fallito alle spalle. Mi sento una vecchia. Non fare i miei stessi errori, Susanna. Non bruciare le tappe. Quando avevo solo tredici anni ho incontrato il mio primo amore e ho lasciato che mi consumasse.
Ero stata cresciuta senza affetto. I miei genitori erano figure piatte di una scenografia familiare. A malapena mi parlavano. Desideravo disperatamente essere amata. Il mio desiderio era polvere da sparo e tuo padre Romeo era il fuoco. Quando ci siamo incontrati, l’esplosione è stata potente, ci ha inghiottiti entrambi e ha lasciato il vuoto dietro di sé. Tutto è stato raso al suolo.
Per lui avevo perso la ragione. Sono scappata di casa, mi sono sposata di nascosto con dei documenti falsi, ho minacciato la mia famiglia di ammazzarmi se non avessero riconosciuto il matrimonio e siccome non mi credevano ho cercato di avvelenarmi. Alla fine hanno ceduto, anche perché tu eri già dentro di me, mio piccolo tesoro, e loro temevano anche per la tua vita.
Ti hanno sempre amata più di quanto avessero amato me. Non ne ho mai capito il motivo, ma ne sono sempre stata felice. Attraverso te ho scoperto l’amore vero, puro. Completamente diverso dall'amore folle per Romeo.
Sono stata una stupida. Avrei dovuto capire subito chi era. Dalle prime volte in cui era tornato dal lavoro con addosso l'odore di un'altra donna. Avrei dovuto capirlo dal trasporto che ha avuto con me, dopo avermi vista solo una volta. Avrei dovuto capirlo vedendo che tipi erano i suoi amici, sempre pronti alla rissa, maleducati. Alla prima volta che la vedeva il suo migliore amico aveva avuto il coraggio di prendere in giro la mia cara balia, che per me era come una madre. Avrei dovuto apprezzare quella volta in cui mio cugino Tebaldo finì in tribunale per averlo insultato. Ma io ero cieca. Per me Tebaldo era solo una testa calda che aveva iniziato la rissa. Lo disprezzavo. Romeo non voleva battersi e io pensavo “Che animo gentile...”.
Scema! Mille volte scema! Aveva solo paura. E’ sempre stato un debole. Già da ragazzino gli piaceva crogiolarsi nella sua tristezza, farsi compatire, chiudersi in camera, sbarrare le finestre e giocare a fare il depresso. E i suoi genitori preoccupati a chiedersi cos’avesse. E’ solo un’egoista! Ecco la risposta. Pensa solo alla propria felicità. E se non ottiene quello che vuole, fa i capricci.
Le persone che mi volevano bene, poche a dire il vero, cercavano di farmi capire che di Romeo non potevo fidarmi, ma io non capivo. “Mi ha sposata!”, dicevo. “Io sono sua moglie! Non una delle tante”. Non dimenticherò mai cosa mi rispose Tebaldo una volta. “Perchè sei una Capuleti! Per uno orgoglioso come lui sai che vanto essere riuscito a sposare la figlia del proprio nemico? Averla messa incinta e allontanata dalla famiglia? Tu sei l’elemento debole, Giulietta, non te lo dimenticare”. Non gli ho più rivolto la parola da quella volta.
Scusami, Susanna, mi sono fatta trasportare. Ma è talmente forte la mia paura che tu debba soffrire quello che devo soffrire io che voglio che questa lettera, così com’è venuta fuori, senza correzioni e ripensamenti della ragione, arrivi nelle tue mani. Voglio che tu la legga. Tu sarai più intelligente di me. Tu non farai come la tua stupida mamma, tu non ti farai spezzare da un uomo. Non perderai il rispetto di te stessa a causa sua. Tu crescerai forte e indipendente.
Ti voglio bene, piccola mia. Tanto.

tua mamma Giulietta

Alla mia adorata figlia che oggi compie quattordici anni,
Oggi è la tua giornata, quindi ti chiedo di perdonarmi se nelle prossime righe parlo di me. So che non dovrei, ma c’è un motivo. Questa lettera serve ad accompagnare un’altra lettera, che trovi in una bustina più piccola dentro questa busta. Tipico della tua bizzarra mamma rendere complicato anche qualcosa di semplice come un biglietto di “Buon compleanno”...
Quella seconda lettera l’ho scritta cinque anni fa. Stavo svuotando la casa dei nonni per la vendita. Per caso ho ritrovato un mio quaderno delle elementari e ho riletto un tema che avevo scritto quando avevo nove anni. Era un tema sui desideri. Vedere scintillare di fronte a me l’innocenza della bambina che ero stata, e sapere cosa l'aspettava una volta cresciuta ... Ho provato molta pena per quella bambina. E quel sentimento è diventando la lettera che ti allego. Mi ero messa in testa di dartela quella sera stessa, perché tu la conservassi come monito. Volevo renderti complice del mio dolore e del mio odio per il mondo. Poi, quando sono venuta a prenderti a danza, tu eri luminosa, felice della tua lezione e non ho avuto il coraggio di rovesciarti addosso tutto il veleno che quella lettera ed io contenevamo. L’ho conservata come un monito, ma per me stessa. Ora che hai l’età che avevo io quando sono diventata adulta, è il momento che tu la legga.
Non sono più la persona che l'ha scritta, ma lei è parte di me.
E' come avessi vissuto due vite, ma non c'è stata una "rinascita". Odio quella parola da romanzo new age, perché implica una morte. Io non sono mai morta. Sì, c’è stata una fine. Quando ho divorziato da tuo padre è finita una fase, ma non la mia vita. Io non sono morta.
Capire che non ero morta, ma viva è stato faticoso. Capire che continuavo ad esistere con tutti i miei ricordi e riuscire ad accettarmi con tutti i miei sbagli è stato molto difficile.
La lettera che leggerai l’ho scritta in un momento in cui odiavo profondamente me stessa. Forse qualcuno potrebbe pensare che non è saggio che una madre riveli alla figlia il dolore che nella vita si può arrivare a provare e che lei ha provato. Ma io voglio che tu conosca quanto più possibile l’animo umano.
Una volta un professore all’università disse che la letteratura non fornisce risposte ai grandi interrogativi della vita, ma da accesso alle risposte che altre persone prima di noi hanno maturato. Fa in modo che la nostra ricerca non riparta da zero.
Ecco perché voglio che tu legga le mie parole. Perché tu non debba ripartire dall’inizio. Per il tuo compleanno, ti regalo un pezzettino di percorso.
E non ti preoccupare, so perfettamente che leggere questa lettera e “sapere” il dolore non ti proteggerà del tutto. So che, in futuro, anche tu commetterai degli errori.
 Ti prometto che non me ne laverò le mani dicendo “Te l’avevo detto”. Ti sosterrò comunque e sarò pronta ad abbracciarti quando ne avrai bisogno.
Buon compleanno, chicco di senape.

Mamma Giulietta

lunedì 3 settembre 2012

«L'IMPORTANZA DI UN SOGNO» di Erminia Daniela Bizzarro per il concorso "Indagine su Giulietta"


Cinque anni passano in fretta, soprattutto quando si e' giovani. Un giorno entri ragazzino in una scuola nuova, talmente grande che quasi hai paura di perderti girando da solo tra quelle aule e, ne esci qualche tempo dopo carico di sogni e speranze, pronto ad iniziare la tua battaglia per inserirti nel mondo. Ultimo intoppo da superare, il voto di maturità. Quello che in tanti considerano un inutile numerino, una cifra scritta su un foglio di carta, indirizzerà' invece il tuo futuro, peccato che tutti i ragazzi se ne rendano conto tropo tardi.Tutto dipende dalla semplice espressione matematica: (rendimento scolastico dei cinque anni) + (voto di maturità) X eventuale botta di fortuna. Se il risultato conclusivo sarà uguale o superiore ai 70/100,  potrai ambire ad un lavoro del tipo impiegatizio, come sportellista in una posta per esempio, al contrario invece, ti toccherà arrangiarti, trovandoti a scartare a vita quegli annunci di lavoro dove si chiedono voti di diploma superiore al tuo.   
Giulietta Capuleti a differenza dei suoi compagni di classe non se ne era mai preoccupata più' tanto. Sapeva di aver dato tutto, non aveva rimorsi, qualsiasi fosse stata la cifra che avrebbe accompagnato il suo ingresso nel mondo degli adulti, sarebbe andata bene, Del resto all'università' non e' il voto del   diploma a fare la differenza ma ben altro. Sognava di diventare una reporter, vedere nuovi paesi, incontrare tanta gente e, ci sarebbe riuscita prima o poi, l'aveva promesso a se stessa.
"Ottantacinque, non male. " Fu l'unica cosa che le disse suo padre quando gli comunico' il voto conseguito. Non era contento, non era mai contento,qualsiasi cosa secondo lui poteva essere fatta meglio: la scuola, il lavoro, perfino i sogni e i progetti per il futuro. Giulietta, mossa da quel amore che tutte le bambine provano per il loro padre e, pervasa dalla voglia di compiacerlo, per un po aveva cercato di accontentarlo, di fare di più'. Aveva trascorso giorni interi chinata sui libri, senza mettere il naso fuori dalla sua stanza se non per mangiare o per andare in bagno, ma non riusci a reggere quei ritmi per molto tempo, facendo ben presto la mai piacevole conoscenza dei cosi detti “ limiti “. Il suo "di più'" l'aveva sempre fatto e, un giorno l'avrebbe capito anche suo padre, cosi come le aveva detto sua madre non molto tempo prima, dopo aver scoperto il suo diario. Già, nell'era dell'informatica, del pc, e dell'Ipad Giulietta teneva ancora un diario segreto. Le piaceva il leggero fruscio emesso dalla carta, tutte le volte che presa da nostalgia aveva fatto scorrere veloce quelle pagine tra le sue dita. Da qualche parte qui e la, erano ancora visibili le macchie provocate dalle lacrime, prova di tutte le volta che le aveva prestato una spalla su cui piangere, da buon confidente silenzioso qual'era. No, quel piccolo quaderno rilegato in pelle aveva smesso di essere una cosa tanto tempo fa e, Giulietta non l'avrebbe cambiato per nulla al mondo. Quanti problemi le avevano provocate quelle pagine, riposte in un non troppo sicuro nascondiglio. Spesso la madre aveva cercato di parlarle, di instaurare un rapporto con quella figlia tanto brillante quanto silenziosa ma, senza nessun risultato. Giulietta si limitava ad ascoltare, annuendo in silenzio ma,niente di più. Non e' che avesse qualcosa contro di lei, anzi, adorava sua madre e lei dal canto suo cercava di non farle mancare niente, di darle tutto l'appoggio di cui aveva bisogno a quell'età, fatta di scelte e decisioni importanti ma, Giulietta proprio non ci riusciva, nonostante sentisse di potersi aprire con lei, lo trovava troppo imbarazzante. E poi, cosa le avrebbe mai potuto raccontare?  Di certo non di §Romeo, il suo fidanzato e, dei suoi continui tradimenti, di certo non avrebbe potuto raccontarle di quando aveva pensato di andare a letto con lui, solo per far si che non la lasciasse. Allora scriveva pagine e pagine, urla silenziose gridate nel buio di una stanza, in solitudine. Nonostante fosse piena di amici, adorava stare da sola, era l'unico momento in cui poteva dare ascolto pienamente ai suoi pensieri e combattere le sue paure. Questa fu un abitudine che l'accompagno nel tempo, anche dopo essere andata via di casa. Da Verona si era trasferita a Roma, per studiare scienze delle comunicazioni alla Sapienza, inseguiva ancora il suo sogno di diventare una reporter. Nonostante quel padre un po troppo tradizionalista avesse cercato di tenerla a Verona, in nome di un lavoro sicuro e redditizio, aveva deciso di partire, nella valigia tanti sogni e quel diario, l'amico di sempre, tra le pagine un foglietto volante: "puoi farcela,mamma". Gia, poteva farcela, voleva farcela. Romeo l'aveva seguita. Nonostante tutti i tradimenti, le bugie e la false promesse le aveva giurato amore eterno e, Giulietta gli aveva creduto. Si erano conosciuti per caso, galeotto fu facebook, come si suol dire. Una notifica, una richiesta d'amicizia di un perfetto sconosciuto, l'unica cosa a legarli, un amicizia in comune, un profilo che aveva permesso a Romeo di scegliere fra tante fotografie quella della ragazza più' carina, per poi cercare d'approcciare, quasi come se Giulietta fosse stata una giacca nuova da provare prima di acquistarla. Del resto con l'avvento dei social network erano in molti i ragazzi ad adottare questa tecnica e, sempre di più' le ragazze a cascarci. E' facile nascondersi dietro ad uno schermo, tutti sono capaci di belle parole e tante promesse quando non si guarda negli occhi l'altra persona, quelli si sa sono lo specchio dell'anima, non mentono mai. Il problema e il dopo. Quando si è già sentimentalmente presi, quando il sentire “l'altro”  è diventata una droga  e, il vederlo l'obiettivo della tua giornata, non è facile tagliare i ponti, mettere un freno ad una storia, per quanto autodistruttiva questa possa essere. Giulietta non aveva mai capito cosa fosse a legarla realmente a Romeo, di sicuro l'amava, ma erano così diversi. Era un eterno bambino. Stavano insieme da quasi quattro anni e lui non era cambiato per niente. Non aveva ne sogni ne aspettative, la sua unica preoccupazione era divertirsi. Anche l'Università, per Romeo non era altro che un gioco, una scusa per non lavorare, un parcheggio sicuro. Si erano iscritti alla stessa facoltà, per mesi Giulietta aveva provato a spronarlo, a fargli capire che così non andava, aveva provato perfino con la tecnica del ricatto, ma niente, un esame in un anno, e pure con la votazione di ventisei. Le cose tra loro iniziarono ad andare male e la convivenza si fece pesante. Romeo continuava a rincasare tardi la notte e a sparire per ore intere senza dare notizie. Giulietta consumata dalla rabbia e dalla gelosia inizio' a trascurare lo studio, non riusciva più a concentrarsi, e del resto come avrebbe potuto? Presa dalla disperazione decise di chiedere aiuto ad un consulente dell'università, la risposta che ne ricavò fu la seguente “E' una fase, passerà. Capita a buona parte degli studenti fuori sede di lasciarsi andare, una volta abbandonata la casa dei genitori” A lei però non era successo. Presa da uno scatto d'ira lanciò un cuscino del divano contro un mobile, dove erano accatastati dei libri, facendone cadere uno. Quando si chinò per raccoglierlo la scritta su un foglietto, ormai dimenticato,attirò la sua attenzione: “ Puoi farcela. Mamma”. Rimase a fissare quella calligrafia così gentile per un minuto, forse due, o almeno così le era sembrato. Ma quando in realtà alzò lo sguardo, era il giorno della sua laurea. Aveva realizzato il suo sogno. Ad assistere al suo trionfo in prima fila sua madre e suo padre, che fu il primo a congratularsi con lei, stavolta con il sorriso sulle labbra." Sono orgoglio so di te" , le disse,mentre Giulietta per la prima volta si sentiva una donna, un adulta. Per quanto riguarda Romeo si vocifera che il padre gli abbia tagliato i fondi intimandogli di tornare a Verona, ma questa è un altra storia.  

«La neve si è sciolta sotto i raggi della luna» il racconto di Felicita Leone per il concorso "Indagine su Giulietta"

Crescere in una famiglia matriarcale non è meno difficile che vivere in una patriarcale. Io lo so bene
essendo stata allevata da una madre sola e avendo vissuto la mia vita con due sorelle più piccole.
Mia madre alla mia età era bellissima e aveva tanti sogni per il suo futuro, era un’attrice, o almeno
questo è ciò che dice lei. La sua promettente carriera si è interrotta quando è rimasta incinta di me,
soprattutto perché mio padre l’ha abbandonata prima che io nascessi, è per questo motivo che io
porto il cognome di mia madre. Di mio padre non so praticamente nulla, sono riuscita solo a trovare
una sua foto in cantina che tengo nascosta nel mio diario. Le mie sorelle, nate da una successiva
relazione di mia madre, sono belle come lei, una di loro ha la massima aspirazione di partecipare a
un reality show, l’altra, iscritta a un club di golf, spera di accalappiare un tardone rimbambito e con
un piede nella tomba per poterne ereditare i beni. E io? Io sono la pecora nera  della famiglia, la
ribelle, almeno per i loro standard. Mi piace studiare, voglio diventare un’insegnante e non amo
mettermi al centro dell’ attenzione. Non sono alla ricerca di marito, ma mia madre ha preparato per
me una sontuosa dote, sperando che qualcuno possa essere invogliato a sposarmi, altrimenti,
secondo lei, io non avrei speranze. Mentalità del 1600? Oh no, dato di fatto nel 2011. Lotte,
battaglie, conferenze e disquisizioni non sono servite a liberare le donne dalle catene del pregiudizio
e della tradizione e il peggio è che spesso sono le donne stesse a comportarsi da oggetti e a portare
avanti costumi appartenenti ormai a quelle società che noi chiamiamo arcaiche, ma che in realtà
sono presenti ancora oggi nella nostra società avanzata e super tecnologia. L’evoluzione e il
cambiamento, a quanto pare, sono solo un’illusione. Io non voglio omologarmi a questo sistema ed
è per questo che sono considerata una ribelle ed è per questo che il mio amore per un ragazzo bello
e ricco, emblema della società contemporanea, è stato per me fin dall’inizio uno strazio e un’agonia.
Non avrei mai dato questa soddisfazione a mia madre perciò ho tenuto questo mio amore segreto e
nascosto e riesco a confidarlo solo alla pallida, argentea e “incostante” luna, la quale mi guarda con
pena attendendo la fine della mia tragica storia. Quando l’ho conosciuto eravamo a lezione, lui ha
raccolto la penna che mi era caduta e a fine lezione si è presentato. Nell’esatto momento in cui ho
visto il suo viso e il suo splendente sorriso color avorio ho avvertito un brivido e un sussulto al
cuore, non lo so perché, non me lo so spiegare, sarà stata una questione di chimica o semplicemente
il suo sorriso e la sua gentilezza  sono riusciti ad addolcire la mia essenza fredda, cinica e razionale.
Quella stessa sera sono andata  a fare una passeggiata sulla spiaggia con il freddo, il vento e il mare
mosso, sdraiata sulla sabbia umida, fra terra e cielo, Gaia e Urano stellato mi sembrava di essere in
simbiosi con il cosmo, unica e sola in tutto l’universo, un connubio perfetto.
:” Anche tu qui?” Ho avuto un sussulto e sono balzata in piedi con il cuore in gola. Era lui.


:” Non volevo spaventarti.”
:” No, non preoccuparti, è che credevo di essere sola. Con questo freddo, le persone che decidono di
fare una passeggiata sulla spiaggia sono veramente poche. A quanto pare mi sbagliavo.”
:” Io adoro il mare d’inverno, posso sedermi vicino a te?”
:” Si certo.” Si è seduto accanto e me e il connubio, in quel momento, era veramente perfetto.
Abbiamo cominciato a parlare di tutto, come se ci conoscessimo da sempre, lui mi ha parlato del
suo trasferimento, della sua passione per i viaggi e per il calcio, mentre io gli ho parlato della mia
passione per la poesia, per la scrittura e della mia poca tolleranza nei confronti di Anastasia e
Genoveffa.
:” Anastasia e Genoveffa? Ti senti come Cenerentola?”
:” Oh no, le sorellastre di Cenerentola erano gelose della sua bellezza, ma con me, loro non
avvertono il pericolo, il principe non potrebbe preferire me a loro!”.
:” Questo dovresti farlo decidere all’eventuale principe!”. Sul mio viso è spuntato un sorriso
spontaneo e improvviso, cosa che accade assai di rado.
:” Comunque per loro io sono inesistente quindi …”. Mi ha guardata e mi ha fatto una carezza sul
viso e poi ha passato la sua mano tra i miei capelli e io sono rimasta immobile.
:” Non per tutti sei invisibile”. Quelle parole sono rimbombate dentro di me come un eco e
nonostante il freddo ho provato un calore intenso come mai avevo provato nella mia vita. Ho sorriso
e ho fermato la mano che lui aveva posato sul mio viso e l’ho stretta. Palmo contro palmo, il tempo
sembrava essersi fermato, eravamo sospesi nell’universo, leggeri come due bolle di sapone.
Dal quel giorno in poi niente è più stato come prima, per me è cambiato tutto, io stessa sono
cambiata e ogni giorno di più non facevo che meravigliarmi del mio così celere abbandono
all’amore, ma sentivo che era una cosa inevitabile, come se ciò che mi spingesse verso di lui fosse
qualcosa di inconsapevole quanto irrefrenabile, non potevo farne a meno, non potevo e non volevo
rinunciarvi.
Tutte le mattine ci incontravamo  lezione, ci scambiavamo sguardi e sorrisi, e la sera senza bisogno
di accordarci ci incontravamo sulla spiaggia dove sdraiati a guardare il cielo parlavamo, ridevamo e
facevamo progetti. Tutto andava avanti in maniera spontanea senza il bisogno di  dirci in maniera
esplicita quello che era già fin troppo evidente, finchè una sera …
:” Vuoi sapere la verità?”.
:” Quale verità?”. risposi un po’ perplessa.
:”Sono innamorato di te da più di un anno, ti seguo dovunque tu vada, ma tu non ti sei mai accorta
di me, per farmi notare ho dovuto cominciare a seguire le lezioni da te frequentate, io, invece dovrei
seguire quelle che tu hai già frequentato circa due anni fa. Ti ho vista per la prima volta in


biblioteca, eri china sui libri e quando ti ho vista, davanti agli occhi mi è passata la mia intera vita
come in fotogrammi, come se tu avessi da sempre fatto parte di me e ho avuto l’impressione che tu
fossi la parte di me che mi mancava e che ero riuscito a trovare. Ti voglio far conoscere la mia
famiglia, questo fine  settimana sono in montagna. Dimmi di si”.
:” Si”. La mia risposta fu così spontanea da lasciare allibita anche me. Lo abbracciai più forte che
potevo e l’entusiasmo si mescolava alla perplessità derivante dal non riuscire a comprendere come
io, che nella vita avevo agito sempre con cautela e che avevo fatto da sempre attenzione a
controllare i miei sentimenti, ero riuscita  in maniera così celere a lasciarmi andare, ad
abbandonarmi a questo amore . Fra le sue braccia, però, sentivo che piano piano quelle perplessità
si stavano allontanando da me, con lui sentivo di essermi finalmente liberata di anni che pesavano
su di me come un macigno. Con lui potevo essere la vera me, potevo dire addio al pregiudizio e alle
sofferenze causate dall’abbandono di mio padre, dalle finte cura della mia madre matrigna e dalle
parole taglienti come rasoi, penetranti più di mille pugnali, pungenti e letali come frecce scoccate da
un arco teso e preciso. Un dolce modo prima di morire dentro, una punta di zucchero nel caffè
amaro e avvelenato, il dono prima di andare al patibolo, il desiderio prima di essere giustiziata,
l’ultimo sorriso prima della lenta agonia. Arrivato il fine settimana partimmo per la montagna, un
viaggi lungo, ma felice. Una volta arrivati abbiamo atteso che qualcuno della famiglia venisse a
prenderci. Faceva freddo e tutto intorno era bianco, tutto era cosparso di neve. C’era tanta gente,
persone che arrivavano, altre che attendevano. In lontananza mi pareva di scorgere un persone che
mi era familiare. Più si avvicinava e più la mia mente cercava di elaborare i tratti a me noti di quella
figura. Era l’uomo della foto, quella che nascondevo nel mio diario. Mi sono rivolta verso l’uomo
della foto e lo ha fatto anche l’amore della mia vita e entrambi …
:” Papà !” abbiamo esclamato.
In quello stesso istante “ il sangue è cominciato a scorrere sonnolente e freddo nelle mie vene, il
polso arrestò il suo battito. Le rose delle labbra e del viso appassirono nel pallido colore della
cenere. Su gli occhi le palpebre scesero come quando la morte cala giù sul giorno della vita. Le
membra private del movimento, dure, rigide e fredde avevano l’aspetto della morte.” (W.
Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto IV.)
Caddi per terra svenuta, su quel manto di neve, gelida come il manto su cui ero posata, sotto i raggi
della luna. Mio padre, nostro padre e lui, il mio grande amore era ed è mio fratello.

  

«Giulietta review» il racconto di Roberta De Tomi per il concorso "Indagine su Giulietta"


“E lei vorrebbe davvero fare questi cambiamenti?”
L’accademico alzò gli occhi dai fogli, l’espressione e i capelli scarmigliati.
La ragazza, la chioma bruna lisciata dalla piastra, gli occhi ardenti valorizzati dalla matita nera, un enorme crocifisso al collo, non si lasciò intimorire.
“Certamente. Ah, dimenticavo! Manca una scena. Dovrebbe scriverla lei.”
“Va bene, va bene, signorina.” l’uomo cambiò argomento “Torniamo ai suoi interventi. Il punto è questo: toglierebbero la verosimiglianza al testo”.
“Direi piuttosto che lo renderebbero attuale, non inverosimile. E poi mi aiuterebbero a…” fece inversione di marcia, alla vista di una nascente curiosità. “Niente, volevo dire, è un allenamento per la mia penna.”
L’uomo inforcò gli occhiali e rilesse alcune righe, quindi scosse la testa.
“No, no, proprio non va. La sua scrittura è brillante e non priva di spessore, ma non possiamo stravolgere il testo in questo modo.”
L’aspirante scrittrice sbuffò, ma si riprese subito. Aveva a che fare con un osso duro. Si diceva che  il professore discendesse dal Grande Bardo di Stratford-on-Avon, ma l’uomo aveva smentito, ricorrendo all’araldica. Guglielmo Sospiri era un veronese verace, che non si perdeva uno spettacolo all’arena e che l’opera la masticava come un muffin delizioso. Ma questo non fece arretrare la ragazza, rispetto alle sue intenzioni.
“Professore, solo un paio di considerazioni.”
Attese il cenno di assenso, che arrivò senza indugi.
“In questi anni sono in voga le storie in stile Cenerentola, che con una scarpetta, trova l’amore. Addirittura, c’è quel film in cui una volgare prostituta sposa il gentiluomo di cui è innamorata. Ora, perché le brave ragazze non possono toccare il paradiso e alle cattive ragazze tutto è concesso?”
Il professore rimase a bocca aperta.
“Ma signorina, non la butti sul moralismo! La questione è un’altra: l’amore impossibile è la ragion d’essere di questa tragedia, che lei ha trasformato in una commedia scontata! Senza contare che verrebbe persa la componente edificante: la morte come redenzione e riconciliazione.” fece una pausa “Non mi fraintenda. Il contesto contemporaneo è reso ottimamente e ci sono battute salaci argute e molto apprezzabili, ma a volte si rischia di cadere nel ridicolo. E il lieto fine non ci sta! Anzi, diciamocela tutta, a William non piacerebbe affatto!”
La ragazza s’imbronciò, ma riacquistò la consueta verve in un attimo.
“Però il risveglio lontano dall’amico coltello ci sta, vero?”
L’uomo sospirò.
“Ci allontaniamo troppo dallo spirito della vicenda. La Giulietta che mi descrive è molto indipendente. È una donna dei giorni nostri, che indossa jeans ed è al centro di intrighi, perché figlia di politici. Proprio in ragione della sua indipendenza, compie scelte precise. Farsi abbracciare dalla morte, rappresenta per lei la massima espressione d’amore e di libertà.”
Una sfumatura malinconica spense lo sguardo di fiamma dell’interlocutrice.
“Professore, è vero, l’amore non è una dipendenza, anzi è una delle massime espressioni di libertà. Ma anche la libertà può essere una delle massime espressioni d’amore verso se stessi e chi ci circonda.”
L’altro tacque, poi agitò la mano in maniera istrionica.
“Sa signorina, non ci avevo mai pensato”.
“A cosa?”
“Lei si chiama Giulia Caputi. Non è poi così lontano da Giulietta Capuleti.”
L’accademico pensò che sfoderare un po’ di ironia avrebbe consentito alla ragazza di smaltire la delusione legata alla bocciatura. Ma quando notò il pallore sul viso di marmo, si preoccupò. E quando vide la studentessa trarre fuori dalla borsa una fialetta, di cui tracannò il contenuto, scattò in piedi, allarmato.
La ragazza crollò a terra. Terrorizzato dall’assenza di battito, e dimenticando ogni riguardo, Sospiri rovistò nella borsa griffata, in cerca di documenti. Finalmente ebbe tra le mani la carta di identità.
Giulietta Capuleti, nata il 31 luglio. Residenza: Verona. Data: 1990. Ventidue anni.
Il professore si passò una mano tra i capelli. Era incredulo. Si convinse che si trattava di una burla architettata da qualcuno dei suoi allievi-attori. Una conferma apparente la ebbe con l’ingresso di un frate, cui aprì dopo alcuni tocchi alla porta. Si presentò come Fra’ Lorenzo. La faccia grassoccia gli rammentò quella di una matricola che alle sue lezioni sedeva sempre in prima fila.
Il chierico parlò, negli occhi acquosi una devozione sincera.
“Lei è il professor Sospiri?”
“Nessuna parentela con il Bardo” precisò l’altro, imbarazzato.
“No, non è per quello.” disse il ragazzotto “Ma per Giulietta. Ha bisogno di scrivere la sua versione. Vuole essere protagonista della sua storia e della sua vita, prima che si troppo tardi!”
Sospiri era allibito, ma anche impotente di fronte a una richiesta che avrebbe avuto ripercussioni  sulla Storia dell’umanità.
Dubbio amletico: perché tocca a me? E poi Sospiri non ha nulla  a che vedere con il cognome del poeta!
Il frate si accostò alla scrivania. Prese i fogli, zeppi di cancellature, e si tuffò nella lettura, mentre Giulietta giaceva a terra, come aveva spiegato il frate, in attesa dell’arrivo di Romeo.
In seguito i due uomini rimasero a confrontarsi, cercando di difendere le proprie posizioni, mentre l’attesa si prolungava come un’ombra minacciosa. Il chierico gli assicurò che il cambiamento nasceva dal presente.
“La versione originale resterà sempre, testimonianza di una voce immortale.”
L’accademico cercò un punto di riferimento nell’intrico di eventi che lo stavano travolgendo.
La timida, ma risoluta studentessa che gli si era presentata cinque mesi prima con l’intenzione di riscrivere la tragedia, era stata mossa da una volontà consapevole. E non era un caso se nella versione della ragazza, la scena della morte apparente si svolgeva nello studio arredato con modestia e straripante di volumi e scartoffie “dell’Autorevole Accademico veronese”.
L’Autorevole Accademico era lui, e la versione di Giulietta era strutturata secondo un sistema a scatole cinesi, in cui lui avrebbe dovuto inserire l’ultima, prima che arrivasse Romeo. Tutto era nelle mani di un nuovo Bardo, che, per ragioni che sfuggivano alla logica, con i suoi interventi avrebbe mutato gli eventi a vantaggio della Giulietta moderna.
Frastornato, ma ispirato, scrisse, rapido, togliendo le cancellature da quelle parti di testo per cui aveva storto il naso, correggendo qualche refuso e cancellando i commenti che aveva inserito.
Alla fine, sotto lo sguardo trepidante di Fra’ Lorenzo, rilesse il tutto, approvato dal chierico.
“Lei salverà la vita di molte persone. Dio sia lodato.” dal sorriso passò al dubbio “Ma, professore, è sicuro che non manchi qualcosa?”
“Cosa?” chiese Sospiri con il cuore a mille.
“L’ultima scena!”
“Ma la versione della signorina non termina con la benedizione delle nozze, che fa presagire il risveglio dei due innamorati?”
Il professore sfogliò più volte il dattiloscritto, poi, ruotando il volto madido di sudore, notò un foglio, per terra, a pochi centimetri dalla sedia. Si chinò, raccolse e volse la pagina, che sventolò.
“Ultimamente sono davvero sbadato!”
Il frate abbozzò un sorriso colmo di aspettative.
“Per cortesia, lo legga ad alta voce!”
L’Autorevole Accademico si schiarì la voce.

Scena Quarta

(Giulietta si sveglia lentamente nello studio dell’Autorevole Accademico, che ha appena terminato il lavoro. Si avvicina a Romeo e gli posa un bacio sulla guancia.)
Giulietta –  Il mio amore si è riaddormentato. (Avvicina le labbra all’orecchio.) Romeo, la tua Giulietta arde per te, ti svegli?
Romeo – Mmhhh?
Giulietta – Dai Romeo!
Romeo – Mmmhhh? (Alza la testa.) Giuly, lasciami dormire! Tutti quei duelli mi hanno distrutto.
Giulietta – (Si alza in piedi e pesta un piede, indispettita) E no eh? Adesso non prendere cattive abitudini!
Romeo – (Si volta sul fianco.) Eddai Giuly, dieci minuti! E poi ricordati che devi allestire il banchetto.
Giulietta – (Si stacca bruscamente e si dirige verso l’ingresso dello studio, inviperita.)  Eh no, Romeo, amante e moglie sì, ma sguattera no!Anche io ho un lavoro! (Fa per uscire.)
Romeo – (Si alza di scatto.) No Giulietta! Dai, il banchetto sarà un mio affare, mentre tu ti dedicherai alla scrittura. Ti prego, non andare! (Si precipita fuori.) 

Il professore alzò gli occhi, trattenendo una sonora risata. Dall’uscio aperto, entrò un giovane, trafelato. Nelle mani stringeva un pugnale insanguinato, mentre urla e passi sempre più vicini rimbombavano nei corridoi dell’edificio.
Romeo si guardò intorno, avanzando verso la sua amata, mascherata dalla morte. Disperato, estrasse dalla tasca la fialetta solo a parole letale, e la bevve, certo che il destino del suo amore fosse segnato in maniera tragica. Quanto si sbagliava!

«Amore, lacrima la luna» il racconto di Maurizio Mequio per il concorso "Indagine su Giulietta"

E' il regno degli imprenditori avidi, delle finanziarie, dei mutui. Goran è nato a Roma da genitori macedoni, ha sei sorelle e vive in una baracca nascosta sulle rive dell'Aniene. Luna è una studentessa dei Parioli. Non ha voluto seguire la strada dei suoi genitori, ha scelto Lettere, non Giurisprudenza e nemmeno Medicina. Legge autori giapponesi e si perde di fronte ai quadri di Mirò. Hanno vent'anni e tutta la vita davanti.
La mattina il ragazzo scavalca le recinzioni, si arrampica tra i rami e di corsa attraversa la tangenziale. Ogni volta rischia la vita per iniziare la sua giornata, sorride e si dirige dal bengalese in Via Salaria. Gli porta il caffè, lui si sciacqua la faccia e avvia la sua attività, un banco di fiori. “Me le hai messe da parte le rose?”. Sabuj gli dà la solita pacca, strizza l'occhio, poi indica il giornale: “Passamene un foglio!”. Goran prende le pagine dello spettacolo, Sabuj incarta duecento rose rosse e gli fa: “Stasera portami una stecca di sigarette, di quelle vostre”. Goran ha sulle spalle un violino con attaccata una figurina di Pandev. In tasca ha una mattonella di fumo. Vola Goran verso la Sapienza. Alla ricerca di qualche quattrino. E' il più grande, non vuole che i genitori chiedano l'elemosina e spera che i suoi fratelli continuino ad andare a scuola.
Luna è fragile e forte al tempo stesso. Così delicata da non sopportare il giudizio dei propri cari, la noiosità dei professori, la superficialità dei suoi amici. Così coerente da rifiutare ogni compromesso. Ha un solo sogno: provare delle emozioni forti, persino soffrire. Mai nessuno le ha fatto versare una lacrima, mai nessuno le ha fatto battere il cuore. Si specchia nei sogni e non nelle folle.
Goran è un poeta, ferma la gente per strada facendo il buffone, poi recita i suoi versi, si dice pazzo: “Pazzo di vita, sfoglio la gente con le dita. Voi siete normali, come animali, sfogliate il denaro col cuore avaro”. Se una donna lo guarda con malizia, le porge una rosa, le tende la mano: “Sei un fiore di campo, la notte pensami, sentirai il mio canto. Bellezza mia, vorrei, ma non posso. Con una mano ti saluto, con l'altra ti denudo”. E le sottrae il portafoglio, l'anello o il bracciale. La città universitaria è il suo regno. Le gradinate di Lettere il suo palcoscenico. Aspetta che escano i professori, li segue da dietro, imita le loro mosse, fino a quando loro se ne accorgono, si arrabbiano e lo cacciano. Entra nelle aule e sfrutta il quarto d'ora accademico per inscenare delle mini-lezioni. Ma un giorno: “Oggi parliamo del Dolce Stil Novo. Voi tutti alzatevi e andatevene a puttane. Lasciatemi quella Beatrice là. Lei è un angelo che va curato, lei non ha bisogno di essere presa in giro”. Lo fischiano, ridono e lei alza le sopracciglia, fa per andarsene. Lui soffia sul suo violino, lo porta sul mento e inizia a suonare. Musica medievale e poi accenni di musica balcanica. Una schizofrenica improvvisazione che sa di gioia e di dolcezza, di rabbia e di cemento. Di carezze e di solletichi. Entra il titolare della cattedra, Goran gli mette a posto il nodo della cravatta e se ne va. Lei, Beatrice, Luna, lo segue. Lui corre, lei corre. Lui rallenta e le afferra la mano: “Vieni con me!”. Arrivano su un prato: “Sei diversa, non riesco a poetare”. Luna in silenzio, inizia ad amare. Toccate e fughe si ripetono nei giorni. Lei piano piano scopre in lui un uomo pulito, sotto quella barba incolta. Lui in lei una donna viva, dentro quell'Istituzione morta. Costruiscono un loro mondo, giocano a vedere i contrari e i vuoti. “Tu non rubi ai figli di papà, regali loro l'autonomia”, afferma Luna. E Goran: “I tuoi professori teorizzano molto, ma non sanno cosa c'è qui fuori”.
Lui spaccia, ma non fuma, lei legge, ma non scrive più. Lui vorrebbe fare l'avvocato, lei viaggiare. Lui è magro ed ha molta fame, lei ha i capelli lunghi e vorrebbe rasarli a zero. Per loro i soldi non esistono, il futuro non esiste, le radici non esistono. Le attuali regole sociali non esistono. Sono strumenti che svuotano le esistenze. “Non dovremo mai farci strangolare da quello che pensano gli altri, a noi basta stare insieme per essere felici”.
E' Natale, Goran è sotto casa di Luna. Ha uno zaino pieno di coriandoli, è fermo al semaforo, ripetutamente al suo verde resta immobile, fa per attraversare e torna indietro, quando le macchine accelerano gli lancia una manciata di pezzettini di carta colorati. Lei lo vede dalla finestra, chiama i genitori e gli fa: “Quello è il mio uomo”. Nello stupore dei parenti riuniti per il pranzo, la disperazione della madre, le bestemmie del padre. Luna prende 50 euro, chiama un taxi, scende le scale, fischia e: “Vieni, sali su”. Diretti al campo. Una lacrima fa sciogliere il rimmel, l'altra arriva sulle labbra. Goran la bacia, sente il sapore del mare. Nuotano nel desiderio di essere liberi. La strada è vuota, non c'è un indirizzo da dare, si fermano nel mezzo di un cammino, lì dove i taxi sfrecciano. Ci sono delle fiamme: “Stai con me, scendi giù”, dice Goran. C'è odore di copertoni bruciati. Il rumore del fiume è spezzato dai respiri di una prostituta. E' su una sdraio, congelata: “E' andato a fuoco tutto, dei ragazzi hanno bruciato tutto. Se ne sono dovuti andare”. La baracca è nera, vuota. Sul viale qualche bottiglia, le galline sono fuori dalla gabbia. C'è un camper con i vetri rotti e una mercedes con i sedili carbonizzati. In ginocchio, le mani nei capelli e poi al fiume a mettere i piedi a mollo. “Fuggiamo, fuggiamo via”. In treno senza biglietto, verso Firenze. A fare l'amore nel bagno mentre passa il controllore e poi sul Ponte Vecchio a deridere i gioiellieri. La notte abbracciati sotto la statua di Dante, di fronte alla Galleria degli Uffizi. La volante della polizia chiede i loro documenti, li porta in caserma. Chiamano la famiglia di Luna, dopo tre ore arriva suo padre: “Può portarsela via, lui resta con noi. A Roma è un po' che lo cercavano”. Una vecchia storia, aveva rubato dei notebook in un'azienda di call center.
Trasferito a Regina Coeli, gli danno due anni. Luna non può incontrarlo, non è una parente. Lui gli scrive tantissime lettere, ma non può ricevere delle risposte. La polizia e la famiglia di Luna le filtrano. Impediscono a Luna di sapere cosa Goran stia vivendo. Lei non sa quando e se potrà mai rivederlo. Goran si ammala di depressione, non può vivere senza di lei. Capisce che sta pagando per un suo errore e se ne dispera. Sa che con Luna ne sarebbe uscito. Ce l'avrebbe fatta. Lei non frequenta più l'Università, rifiuta i pasti, non parla. Ha preso la penna ed ha iniziato a scrivere. “Troppo facile farsi vedere morire. Non c'è nessuno al mondo che si sia degnato di voler vedere la mia vita. Nessuno eccetto lui. Il mio corpo che pian piano andrà scomparendo, i miei pensieri che sempre più resteranno chiusi, sigillati nel mio cervello. E loro lì soddisfatti, convinti che torni ai loro conti. Che sposi un mio coetaneo col posto fisso. Che faccia carriera, che guardi la televisione, che sorrida per un regalo firmato”. La speranza di Luna è nel suo apparire morta, solo allora i genitori capirebbero la nitidezza delle sue emozioni. Un padre assente, impegnato dal lavoro, dal successo, segue le sorti dei potenti. Dopo pochi mesi ha già dimenticato la storia di quel rom. La mamma no, conosce l'anoressia, segue la distruzione della figlia, ma è paralizzata dalla sua impotenza. E' terrorizzata dall'indifferenza. Nasconde la gravità di Luna perché ha paura di scoprire il disinteresse del marito. Fa comodo a tutti non voler vedere.
Dopo un anno e cinque ricoveri, Luna ha una sonda diretta allo stomaco, un diario immenso, poca forza. La mamma chiede dei favori, vuole incontrare Goran. I celerini recapitano il messaggio: “Luna sta male, sta provando a morire. La mamma ti vuole incontrare. Domani”. Goran sa che lei lo stava aspettando, ne era sicuro. “Perché questo passo. Perché il suicidio?”.
La notte, in cella, Goran prende la matita, disegna una luna sulla parete, la fissa. La bacia. Prende la lama del rasoio, chiude gli occhi e rende dolcissimo un taglio profondo, che buca la vena. L'ambulanza corre all'Ospedale. E' salvo, ma si sente morto dentro. Il giorno seguente Luna chiede alla madre di portare il suo diario a Goran. Lei accetta, incontra il ragazzo, glielo consegna, lui apre l'ultima pagina: “Sono ancora viva, solo tu mi puoi vedere tale”. Goran sorride: “Dica a sua figlia che non l'ho presa in giro, che è il mio angelo e che va curato”. Luna riprese a mangiare, Goran iniziò un programma di riabilitazione finalizzato all'inserimento lavorativo.

Un giorno ci sarà una festa al nuovo campo rom, Goran suonerà il violino e Luna ed il padre balleranno assieme. Goran lascerà il suo violino al fratello più piccolo, si avvicinerà ai due, chiederà la mano di Luna. Lei guardando il padre dirà: “Grazie di avermi dato la vita”. Poi, dritta negli occhi di Goran: “Grazie di averle dato un senso”.



«GIULIETTA 2.0» il racconto di Bianca Campagnolo per il concorso "Indagine su Giulietta"


Apre gli occhi. Sonno. Che maledetta ora è? Devo studiare. Per fortuna i miei sono fuori casa. Prende il Blackberry, che è sempre vicino al comodino. E’ mezzogiorno, l’ha svegliata la vibrazione del messaggio: “Amore stasera Capuleti fa un concerto.. andiamo?” A Giulietta piacciono i concerti. Ma… quel cretino di Paride cosa ne capisce di musica? Si ricorda ancora l’ultima volta che avevano litigato perché voleva convincerla a votare per il “best dj in the world” (ripensandoci la sua reazione era stata probabilmente esagerata). Giulietta spesso si chiedeva perché stesse ancora con lui, quando non lo sopportava più. Probabilmente aveva solo paura di cambiare l’unica parte tranquilla della sua vita, peggiorandola ancora di più. Il grande problema della sua generazione: immobilità, incapacità di cambiare. “Bo, andiamo Pari” Invece di studiare cazzeggia al computer. Giunta l’ora di uscire svogliatamente va a prepararsi, due colpi di spazzola al caschetto rosso. Prima di lavare i denti  mangia una merendina. Si guarda allo specchio. “E’ inutile che ti lamenti che sei bonzetta, mia cara Giulietta, se poi ti ingozzi.” Ricorda quando nel camerino di H&M aveva avuto per la prima volta l’orribile certezza che il suo sedere avesse perso la battaglia contro la forza di gravità. Ma la guerra non è ancora finita!
Il concerto sembra carino… saluta gli amici. Quanto è scemo Paride con i suoi occhialetti da secchione? Eppure è così bravo a scuola. Si stacca da lui con la scusa di andare a prendere qualcosa da bere, meditando che lo deve lasciare. Arrivata al bancone chiede una birra media, doppio malto. Si guarda intorno e vede gente già un po’ brilla, sono solo le dieci. A volte pensa se sia sempre stato così, se anche un tempo si beveva per divertirsi, per curare quel senso di vuoto che c’è dentro di ogni adolescente, o se prima era solo un dolce accompagnamento al divertimento. Persa nei suoi pensieri si dimentica quasi della birra che il vecchio barista butterato  le sta porgendo. Beve qualche sorso. Non ha voglia di tornare dal Pari. Per allungare i tempi di ritorno tira fuori una sigaretta. Come al solito non trova l’accendino nella borsa e si diletta in mosse da contorsionista nella ricerca. “Accendino?” La voce non le è familiare. Alza lo sguardo e vede un ragazzo che le sorride. E’ carino e le porge un accendino colorato. “Ho appena comprato questo accendino.. figo eh? Sembra uno zippo ma è un fake.” Le accende la sigaretta. Giulietta si chiede se lui ci stia provando. Lo trova interessante, molto interessante. Accende anche lui. Parte “Song 2”,dei Blur. Giulietta in quel momento capisce che se non riesce a uscire dal suo guscio potrebbe perdere le speranze di conoscere quell’individuo interessante. Le parole le escono come da sole “Ti va di ballare?” Lui la guarda beffardo, la prende per la vita e vanno verso il palco. Si agitano al ritmo della musica. Un po’ la birra, un po’ l’adrenalina ha dimenticato tutto ciò che di spiacevole c’è nella vita. Si avvicina e lo bacia. Lui ricambia. A un certo punto si ricorda di Paride. Non può trattarlo così. Deve lasciarlo. E questo sconosciuto che bacia con tutte le regole chi è dunque? Non le importa chi sia, nel momento in cui le sue labbra hanno sfiorato le sue è certa di amarlo e che quello sia il suo vero amore. Ma deve andare, non può stare lì. “Ascolta, devo andare. Dimmi il tuo nome così ti aggiungo su Facebook” “Romeo Montecchi.”
“Ho visto che ti sei fatto la rossa, eh?” esclama Benvolio “e Rosalina, il tuo grande amore? Non eravamo venuti a questo concerto pacco per vederla?” “Rosalina non ha nulla a che spartire con questa ragazza.” Nonostante fosse stato un bacio fugace Romeo era certo di avere trovato la donna della sua vita. Era sempre stato un tipo sentimentale.
Giulietta lascia paride esattamente 20 minuti dopo il bacio con Romeo. Gli parla freddamente e schiettamente. Non erano fatti l’uno per l’altra, avrebbe dovuto capirlo prima. Probabilmente stava con lui per avere una specie di punto di riferimento nella sua vita incasinata. Paride pianse. Giulietta non credeva che ci sarebbe rimasto così male. Arrivata a casa accende il pc e la prima cosa che fa è cercare Romeo su Facebook...eccolo! Aggiungi agli amici! Lo spia un po’. Una notifica: Romeo Montecchi ha scritto qualcosa sulla tua bacheca. Sussulta. E ora cosa ha scritto questo? “Mi piaci. voglio rivederti.” Lei  gli risponde per e-mail “Sei pazzo a scrivermi in bacheca? Vedranno tutti!” “Che vedano.” La conversazione continua, si rivelano quanto si piacciono e quanto sarà eterno il loro amore.
La mattina dopo viene svegliata dalle urla dei suoi genitori. Erano tornati. “Giuliettaa! Cosa hai fatto al povero Paride??” “L’ho lasciato. Non mi rendeva felice.” “Ma cosa ti viene in mente? Era un ottimo partito!” Giulietta capì che sarebbe stato un altro pretesto per gli episodi di violenza che avvenivano in casa. Sua madre, maniaco depressiva che rifiutava di curarsi, e suo padre, stimato bancario violento in famiglia, erano un mix letale per una vita serena. La scenata fu più peggiore del solito. Rimediò un bel po’ di lividi  accompagnati dalla solita sensazione di impotenza. Finalmente riuscì a uscire da quella casa. Prese dei risparmi e qualche vestito. Doveva andarsene, mollare tutto e andarsene..
Un messaggio su WhatsApp: è Romeo. Vuole vederla.. ma come fa a presentarsi così? Piena di lividi? Con gli occhi ancora gonfi di lacrime? Ma pensando che sia l’unica persona che vuole vedere in quel momento, lo raggiunge. Lui la guarda e capisce che qualcosa non va, le chiede cosa succede. All’improvviso Giulietta racconta. Racconta tutto quello che ha vissuto, per la prima volta. Racconta delle violenze, dei lividi, del sangue, delle lacrime, del rancore, della paura ,dei silenzi, delle grida…e Romeo ascolta. Ascolta come mai ha ascoltato nessuno in vita sua. Alla fine si abbracciano. Lui decide di dirglielo: partirà per Berlino, andrà a studiare in Germania, ha anche trovato un lavoro per mantenersi. E lei verrà con lui. Sì, verrà. Sì.
Si fa notte intanto. Loro sono ancora nel parco ignari dello spazio e del tempo intorno a loro. Non c’è nessuno in giro, o così sembra. A un certo punto una figura di uomo si staglia in lontananza.. canta una canzone stonata. E’ visibilmente barcollante e ubriaco.
 Giulietta perché mi ha lasciato  io ero perfetto per lei che ora è e la rendevo felice chi le ha scritto in bacheca chi è me l’ha portata via perché troppa vodka non mi vuole più cosa ho sbagliato cazzo la odio la odio la odio la odio  la amo la amo la amo  sono loro sono loro sono cazzo loro sono lì sulla panchina nel parco fanculosiabbraccianosibacianodovreiesserciiolìchièquellolefogliel’odoreerbatagliatamipiacetagliatanauseahobevutosonoubriacoforsesiforseioquellolopicchiolouccidoelariportoouccidoanchelei
La figura è Paride che si avvicina e urla frasi sconnesse, dice che rivuole Giulietta. La situazione peggiora, Paride prende un bastone e lo brandisce contro Romeo. Lui è più grosso, ma Romeo è sobrio. Schiva il colpo, lo schiva di nuovo ma a un certo punto viene ferito. La rabbia si impossessa di lui, lo spinge. Un attimo. Paride perde l’equilibrio, cade. Non si rialza più. Lo chiamano. Non respira. “E’ morto?” “E’ morto. Ha sbattuto la testa contro un masso.” Romeo e Giulietta fissano per un tempo interminabile il corpo privo di vita di Paride. Congelati, immobili come lui. All’improvviso un urlo squarcia il silenzio. “L’avete ammazzato!” Rosalina. Tutti hanno sempre saputo che lei amava Paride follemente. Per questo ha sempre rifiutato Romeo. Ma paride non la degnava di uno sguardo…eppure lei lo ha seguito, anche se era ubriaco e in cerca della donna che lo aveva lasciato, sperando in chissà cosa, magari di rubare un bacio... Rosalina piange e si dispera sul corpo morto di Paride. Lo scuote come se fosse solo addormentato. Minaccia di chiamare la polizia. Romeo si allontana un attimo. Raccoglie qualcosa per terra. Un sasso. La colpisce con forza sulla testa. Lei si accascia a terra.
“Cosa cazzo facciamo ora? Li hai ammazzati tutti e due! Abbiamo due cadaveri! Cosa ne facciamo? Perché hai ucciso anche lei?” “L’ho fatto per il nostro futuro. Avrebbe chiamato la polizia. L’ho fatto per noi.”
Romeo e Giulietta sfrecciano per le vie di Berlino su una macchina noleggiata. Ora hanno documenti falsi, una nuova vita, sono felici. A casa  un’altra macchina è bruciata. Dentro ci sono i corpi carbonizzati di un ragazzo e di una ragazza. Un terribile incidente penseranno tutti. Solo quattro persone sanno la verità. Due non possono più parlare. Due non parleranno mai. E’ come se nulla fosse mai accaduto. Nessuno li ha scoperti e trovati, per ora.
Romeo sogghigna: “Magari all’inizio hanno pure pensato fossimo noi quelli nella macchina. Magari tutti hanno pensato che mai vi fu storia di maggiore dolore che quella di Giulietta e del suo amore!”
Giulietta appoggia la testa sulla spalla di Romeo e sorridendo chiude gli occhi.