lunedì 30 luglio 2012

«Juliet 2000» di Davide Conidi, per il concorso "Indagine su Giulietta"


   San Francisco, ore 7:25. Era da poco spuntato il sole e la mattinata si preannunciava grigia e fredda come ogni mattinata di novembre. Il sig. Capulets, tutto infreddolito e con le coperte sbattute ai piedi del letto, si era appena risvegliato nel suo loft. Il volto pallido e sciupato, la fronte bagnata dal sudore. Non aveva chiuso occhio nemmeno quella notte a causa dello stesso incubo che lo stava assalendo da mesi.
-       “Juliet? Juliet, dove sei? JULIET?”
   L’uomo si voltò a fissare la sig.ra Capulets dall’altra parte del letto. Come suo solito la lasciò riposare in pace e dopo averle baciato la fronte si alzò per prepararsi. L’azienda aveva pur sempre bisogno del suo direttore. Andò quindi in bagno e cercò di ritornare in sé; aprì il rubinetto e con l’acqua più fredda possibile si sciacquò il volto, più e più volte. Poi si guardò allo specchio: vecchio, rugoso, con lo sguardo spento e i capelli canuti. La tenue e grigia barbetta irregolare e malcurata rendeva il suo viso chiaramente in preda alla disperazione. E lui era ormai disperato. Come non esserlo? La sua bella e giovane Juliet non c’era più. La sua unica figlia era scappata via da lui. Maledetto quel compleanno, pensava. E maledetto quel Rowley. La sua Juliet non fu più la stessa da quando incontrò quel drogato imbecille. Era al corrente della loro relazione e a lui non andava di certo bene. Anzi, voleva assolutamente che finisse. Forse lo voleva fin troppo, viste le conseguenze. Visto quel diavolo di litigio che la spinse via. Era stato troppo duro con lei, le aveva detto delle atrocità e per poco non le avrebbe alzato le mani addosso. Aveva maltrattato in ogni modo il suo angioletto solo per colpa del ragazzo sbagliato. Chissà ora dov’era. Chissà che stava facendo. Lui la stava trattando come una principessa? Si stava occupando di lei come aveva sempre fatto il suo papà? Era da quattro mesi che se lo stava chiedendo e nessuno gli aveva mai dato una misera risposta.
   Uscì dal bagno e arrivò all’armadio. Tirò fuori il suo scuro completo, una camicia e una cravatta a righe, e mise tutto sul letto. Si spogliò e si rivestì lentamente, pensando ancora al mondo a cui sua figlia aveva rinunciato, ai beni, al lusso e alle comodità che unite all’amore di suo padre le avrebbero reso la vita perfetta. Eppure lei preferì quel Rowley: all’apparenza educato e di bell’aspetto ma nonostante i suoi ventitré anni compiuti ancora disoccupato e senza uno straccio di laurea. Certamente un’altra sanguisuga che aveva trovato in sua figlia l’occasione di arricchirsi. Lui l’aveva avvisata, durante quel litigio. Le aveva spiegato che la stava solo raggirando per soldi, che un amore come il loro non avrebbe fruttato nulla di buono e che di ragazzi per bene ne avrebbe potuti trovare se avesse atteso altro tempo. Ma lei niente, rinnegava ogni cosa. E alla fine accadde. La sua insolenza, la sua testardaggine avevano spinto il suo papà al peggio. L’aveva cacciata via di casa in lacrime e le gridò rabbioso che per lui era morta. Morta! Il sig. Capulets non riusciva a darsi una tregua di fronte a quella vicenda. Dovunque Juliet si trovasse non l’avrebbe mai perdonato, ne era convinto. Ma le voleva bene, e in un modo o nell’altro doveva dirglielo.
   Prese infine i suoi mocassini neri e fu lì per metterseli, quando suonarono alla porta. Il sig. Capulets non aveva assolutamente idea di chi fosse a quell’ora del mattino. Aprì e non vide nessuno. Dunque abbassò lo sguardo e trovò una lettera sul tappeto. Turbato, la prese e chiuse la porta. Erano anni che non riceveva lettere. Scartò la busta e cominciò a leggere:

West Army Avenue, 23; Centrale di polizia di Henderson, Nevada

Gentile sig. Capulets,
mi sono concesso di scriverle con urgenza per comunicarle che ieri sera una giovane comitiva ha intravisto dalla boscaglia confinante le nostre strade i resti carbonizzati di un’automobile di un’auto in fondo a un precipizio. Una Ford Sierra Cosworth bianca. All’interno vi era un cadavere interamente sfigurato, ma la targa è pervenuta quasi leggibile e tramite essa sono arrivato a lei: secondo le ricerche la macchina è di sua proprietà. Il sottoscritto è già a conoscenza della scomparsa di sua figlia Juliet, pertanto ritengo che il cadavere rinvenuto sia il suo. Considerato inoltre che la distanza tra la strada e il luogo del ritrovamento è considerevole, mi è lecito supporre che questo sia un caso di suicidio. Per esserne certi chiederei a lei e a sua moglie di recarvi in giornata in centrale per poter rispondere a qualche domanda e comprendere meglio tale misteriosa faccenda.
Le più sincere condoglianze,
il commissario Portman

   Terminata la lettera egli s’inginocchiò a terra inorridito. Juliet si era spinta a tanto? Si era davvero uccisa? L’uomo stentava a crederci. Sua figlia amava la sua vita. Eppure tutto confermava la sua morte. Possibile che si sia tolta la vita per aver perso suo padre? Il sig. Capulets era in preda allo sconforto. Si era messo le mani tra i capelli e se li stava strappando con le lacrime agli occhi. Juliet non c’era più ed era tutta colpa sua.
   Ma poi ritornò in sé, si asciugò il viso e tese la mano verso il corpo dormiente di sua moglie, pronto a darle la tragica notizia.

   Era quasi arrivato il torrido mezzogiorno sulle strade dell’argentea Nevada e il sole regnava incontrastato tra i folti alberi silenziosi in un cielo azzurro e senza nuvole. La prima settimana di luglio era già trascorsa e da circa un mese l’estate era cominciata. Sulla calda distesa d’asfalto il nulla. Solo un piccione aveva osato poggiarvisi, beccando qua e là a passi lenti.
   Improvvisamente quel gran silenzio si ruppe e al suo posto una forte voce di donna accompagnata da più e più strumenti e giochi acustici inondò il paesaggio col suo ritmo invadente. Assieme ad essa un forte rombo di motore. Dall’orizzonte era infatti sbucata una creatura metallica dalla lurida coda fumosa che sfrecciava libera e incontrastata: una Ford bianca. Alla guida stava una giovane ragazza coi capelli castani raccolti in una lunga coda da un elastico fucsia. Stava masticando una gomma mentre divertita canticchiava il nuovo singolo di Katy Perry “Last Friday Night” trasmesso alla radio. Sul sedile accanto al suo stava disteso un manichino. Gli occhi verdi di Juliet erano lucidi. Ovvio, dopo il pianto che avevano prodotto. Neanche un paio d’ore fa era nel suo appartamento a San Francisco a discutere con quel mostro di suo padre. Sapeva di lei e Rowley e voleva troncare all’istante la loro relazione. Ma con quale presunzione, pensava lei. Come aveva potuto trovare la faccia per ordinarle di sbarazzarsi dell’ennesimo ragazzo? Da ben diciotto anni quell’uomo aveva fatto di tutto per osteggiare ogni sentimento di Juliet rivolto a qualcuno che non fosse lui. Ogni volta era stato capace di farla soffrire e, senza ritegno o alcun senso di colpa, l’aveva trattenuta prigioniera nel suo ricco e spocchioso mondo. Era vero, pensava, che non le era mai mancato nulla di comprabile nella vita, ma nessuno aveva mai pensato all’affetto che una bambina ricerca nella sua infanzia? Una famiglia non dovrebbe basarsi sul volersi bene anziché sui conti corrente e le quote azionarie? Quella solitudine che i suoi non furono mai in grado di colmare smise di torturarla quando conobbe Rowley. Durante quella noiosissima festa lui s’imbucò per scroccare da bere, ma quando la vide le si presentò, la fece divertire come non mai e assieme decisero di evadere da quel mortorio. Raggiunsero un vecchio campo di calcio e si distesero sull’erba a puntare il dito contro le stelle. In quel momento i loro sguardi s’incontrarono e si scambiarono un lungo bacio. Juliet sapeva che per continuare a frequentarlo avrebbe dovuto liberarsi dalle grinfie malefiche di suo padre; così aveva deciso di inscenare un litigio col pretesto di provocarlo e spingerlo a scacciarla di casa in lacrime. Quanto era orgogliosa del suo ruolo da indifesa donzella!
   Ora non le restava altro che terminare la sua missione; svoltò bruscamente a sinistra e si addentrò rapida nella boscaglia. Poi aprì lo sportello e si buttò fuori dall’auto. Fece una capriola o due prima di fermarsi a terra. Alla fine si alzò in piedi, scosse un paio di volte la testa ed infine s’incamminò più avanti. Al di là del precipizio la Ford aveva effettuato un vero salto acrobatico prima di sfracellarsi al suolo. Il motore si diede subito alle fiamme e con uno scoppio queste cominciarono a cibarsi del veicolo. Una colonna di fumi verso il blu. Chissà quando la polizia avrebbe trovato la macchina, e chissà se scambieranno il manichino abbrustolito per il cadavere di Juliet.
   In ogni caso, la ragazza sfilò il cellulare dalla tasca e fece il numero di Rowley. Il piano era stato portato a termine e adesso una vita migliore attendeva Juliet. Come primo passo doveva attendere il suo amato per poi viaggiare verso Las Vegas e sposarsi. Una magica notte di nozze in albergo. Poi qualunque cosa. Infine  la felicità.

mercoledì 25 luglio 2012

«La Regina di Coppe», il racconto per il concorso "Indagine su Giulietta" di Alessandro Dattola


“Quello che chiamiamo rosa, anche con altro nome avrebbe il suo profumo.”
Giulietta Capuleti

Perché non mi sottrai tu che sei l’artefice del tempo?
Sempre più spesso sogno che una divinità delle origini, di quelle che vivevano lungo i fiumi o nei boschi mi sottrae da questa era conducendomi in un luogo sovrannaturale dove ho la sensazione di essere veramente me stessa. Nella vita di tutti i giorni invece non tollero più le strette di mano, i pranzi di lavoro e la suoneria metallica del cellulare, ma soprattutto di fronte a mio padre abbasso lo sguardo e vado oltre. In cuor mio vorrei spiegargli che non mi ritengo una disadattata sociale perché a quarant’anni non sento la necessità di sposarmi e di avere dei figli, questa mia scelta viene vissuta dai miei genitori come un oltraggio nei loro confronti. Essendo l’unica discendente di una famiglia di imprenditori molto stimati vorrebbero da me degli eredi, possibilmente maschi. I miei genitori non hanno capito che per me è più importante muovermi all’interno del tempo, dello spazio e del suono secondo metri personali. Sono stufa delle regole convenzionali della società.
Almanaccando questi problemi cammino per le strade del centro storico. Fa freddo e cadono dal cielo granuli di nevischio argenteo. E’ bellissimo quando un raggio di luce si riflette su queste particelle perché sembra di procedere attraverso la Via Lattea.
Ora imbocco Via Colle dell’ortica ed entro in una libreria che vende libri usati, giro e rigiro tra gli scaffali dove sono ammucchiati disordinatamente volumi di tutti i generi e scopro usurato dal tempo: “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare in una vecchia edizione popolare del 1908, epoca in cui queste opere incominciavano ad avere una divulgazione più vasta. Con pochi soldi mi porto via questo libro e pagina dopo pagina, parola dopo parola, m’impregnerò di questo dramma che ha attraversato i secoli fino a raggiungere la nostra epoca e chissà quante epoche vedrà ancora.
Cammino a passi svelti per vincere il freddo, avvolta nella mia mantella di cachemire nero con il cappello a falda larga che mi ripara la testa. Nella tasca interna della giacca tengo protetto il mio acquisto e sfidando il cattivo tempo raggiungo finalmente casa. Mi preparo cena: brodo di carne e fette di pane abbrustolito spalmate di paté di fegato, dopo aver mangiato lavo le stoviglie utilizzate e le ripongo nell’acquaio ad asciugare, finalmente sono libera di dedicare tutto il tempo che resta della giornata a me stessa. Prima di addormentarmi leggo un po’ sdraiata sul sofà del salotto in compagnia della mia gatta Briciola che nutre la mia tenerezza strofinando il suo manto nero e vellutato contro le mie gambe. Per farle capire che le voglio bene la prendo in braccio e la bacio sotto il mento fino a quando contenta di aver ricevuto da me le attenzioni richieste si raggomitola nella poltrona e s’addormenta. Fuori la nebbia di fine novembre ammanta i campi di granturco, densa si spande su tutta la pianura. Nell’intimità della vita domestica ritrovo me stessa: vorrei che la solitudine, la lettura e la contemplazione diventino le fondamenta del mio benessere interiore. Osservo dalla finestra della mia camera le montagne, e da qualche parte in me sopraggiunge il ricordo degli anni universitari, quando passavo le notti estive a questa finestra ad immaginare l’impossibile quadratura del cielo.

La prima cosa di cui ho bisogno al mattino è un buon caffè bollente, pregusto il suo sapore ancora prima di riacquistare il senso dello spazio e del tempo, del sogno mi è rimasta una sensazione incantevole, forse sognare è l’unico modo che abbiamo per comunicare con gli Dei. Eccomi, come ogni mattino ritornata da quel viaggio, riapro gli occhi, afferro con le braccia il cuscino e ci affondo la testa per assaporare ancora qualche minuto di sonno, ma ormai il viaggio è finito, lo capisco dai rumori che arrivano dalla strada. Sono ancora sotto la coltre di lana morbidissima, avvolta nel pigiama di flanella, la casa è fredda e fatico ad alzarmi, con uno sforzo tiro via le coperte e con uno scatto mi ritrovo seduta con i piedi gelidi infilati nelle pantofole, poi prendo il plaid dal letto ancora caldo del mio corpo, mi ci avvolgo dentro e mi avvicino alla finestra, tiro le tende, e scopro con gran meraviglia la brina, che come una Dea ha rivestito i tetti, la strada, il piccolo cortile della casa confinante dove la signora Caterina tutta intirizzita dal freddo sta ritirando la roba stesa, dalle grondaie scendono coni di ghiaccio. Penso che sia di buon auspicio scambiare quattro chiacchiere con la vicina, apro la finestra e la saluto: <<Buon giorno signora>> <<Buon giorno cara>> mi risponde, mentre continua a ritirare la roba stesa: <<ha visto che tempo, mi si è gelata tutta la biancheria>> <<ha passato bene il fine settimana?>> le chiedo, <<Si, è venuto mio figlio con la sua famiglia. E lei?>> <<mah, niente di speciale, sono rimasta a casa>> <<ha fatto bene, con questo tempo … arrivederci>> <<arrivederci signora >>
Avvolta nella coperta, scendo in fretta le scale che dal piano superiore della casa portano ai vani sottostanti, entro in cucina e preparo la caffettiera, e mentre è sul fuoco corro in sala ad accendere il camino, oggi Agnese non c’è, dovrò fare tutto da sola, e domani la sentirò brontolare per il disordine che ho lasciato e che lei quando sono sola in casa non si sente tranquilla ed è con il pensiero sempre a chiedersi: mangerà?, dimenticherà qualche cosa sul fuoco?, starà al caldo?, tutte le volte devo sorbirmi la tiritera che è stufa e che alla fine se n’andrà e poi vorrà vedere come me la caverò. Non lo farebbe mai, anche se queste cose me le ripete tutti i giorni, ormai da dieci anni.
Mentre faccio la doccia rifletto sul libro che sto leggendo, mi domando che donna infelice sia stata la madre di Giulietta Capuleti, Donna Capuleti, passata di proprietà da un padre intransigente ad uno sposo attaccato alle tradizioni a tal punto da sacrificare sua figlia ad esse. Questa donna che pende dalle labbra di un marito onnipotente, che a tredici anni diventa moglie e madre e che, annientata completamente nella sua personalità costringe la figlia a diventare come lei, ammonendola ogni volta che si lascia andare ai sentimenti.
Mi vesto in fretta, prendo la macchina e attraverso il traffico cittadino per raggiungere il lavoro, come arrivo la segretaria mi dice che mio padre vuole vedermi nel suo ufficio, sulla mia scrivania alle otto di mattina c’è già una lunga lista di appuntamenti, tra cui un invito da parte di Federico Sorrentini per il pomeriggio, vorrei evitare questo incontro. Squilla il telefono, è mio padre che mi cerca ...
Come sempre quando entro nel suo gabinetto privato ho un po’ di soggezione, lui indossa un vestito scuro e la cravatta malva con il giglio fiorentino ricamato in oro, dono della mamma e mio per il suo compleanno. Il busto dritto e slanciato malgrado i suoi sessantacinque anni, i capelli ondulati perfettamente pettinati, bianchi con i riflessi argentei come i baffi lo fanno sembrare un patriarca delle ere antiche, dopo avermi baciata sulla fronte si accomoda alla sua scrivania e con un’espressione pensosa mi dice: <<Cara Giulietta, mi ha telefonato Federico Sorrentini e mi ha espresso il desiderio di vederti>> tentenno un po’ con la voce, balbetto, ma mi riprende dicendomi: <<ha organizzato una merenda alle cinque a casa di sua zia Ester, avrai già sentito parlare di lei: è diventata famosa anni fa per le sue presunte doti divinatorie, molto ricca lascerà a Fabrizio l’intera proprietà poiché è l’unico erede. Se poi non ti aggrada frequentarli potrai sempre declinare altri inviti, ma è giusto che a questo tu ci vada …>> e con un profondo sospiro di disapprovazione poiché deve aver letto sul mio viso il rammarico a partecipare a quella festa mi congeda. Esco dall’ufficio visibilmente contrariata e senza pensare a quello che sto facendo chiedo in maniera meccanica alla segretaria di avvisare l’avvocato Sorrentini che alle cinque sarò a casa di sua zia. Quando prendo coscienza di ciò che mio padre riesce a farmi fare senza che io riesca a controbattere provo un senso di frustrazione tale che vorrei piangere, ma non posso perché intanto squilla il telefono e soffocando un sussulto mi metto a lavorare.
Attraverso a piedi l’incantevole rione dove si trova villa Sorrentini, ogni scusa è buona per fermarmi: ora per accarezzare un grosso spinone nero che mi viene incontro dalla direzione opposta, ora per bere dal lavatoio di pietra dove scorre un’acqua fresca e limpida. I luoghi che ammiriamo lasciano tracce dentro di noi e queste tracce registrate dalla memoria plasmano un luogo ideale.
Per l’occasione ho trovato elegante preparare un cesto con dentro piccoli vasetti di confetture e frutta sciroppata da regalare alla anziana signora che ha organizzato questa merenda.
Marmellata di mirtilli e caffè con zollette di zucchero servito in piccole tazze di fine porcellana in una dolce sfumatura di bianco. Quando entro nella stanza si ode un delicato tintinnio di posate. Attorno ad una tavola rotonda imbandita come una natura morta, bottiglie di cristallo di Boemia, un cesto di vimini per contenere il pane e la vecchia fruttiera liberty colma di arance e mele, siedono due donne e tre uomini. La padrona di casa serve il caffè: ci riceve nel suo tubino nero dove spicca un girocollo di perle d’una eleganza sobria, dimostra circa settant’anni, ma si dice ne abbia di più: ha i capelli bianchi, ondulati, gli occhi di un azzurro intenso. Alla sua destra in un vestito di velluto nero è accomodata Maria Teresa Castelfrassino: aristocratica padovana che anni fa mi volle come membro onorario nella sua associazione culturale, la sua fondazione si occupa di difendere la cultura dalla mercificazione che come dicono loro: <<… ormai imperversa, gettando l’umanità in una crisi di valori spirituali>>, ora questa donna che ottuagenaria viaggia, fa conferenze, riceve amici da tutto il mondo, disposta senza battere ciglio ad alzarsi alle due del mattino per soccorrere un qualsiasi infelice che ha bisogno d’assistenza, pronta a privarsi di un bene di famiglia per ricavarne denaro al fine di aiutare un immigrato ad entrare nel nostro paese, diventò stizzosa nei miei confronti quando le confessai di tenere nel portafoglio una foto della mia nonna defunta, considerando la nostalgia per la nonna defunta una debolezza umana e non un nobile gesto mosso dalla carità cristiana. Essa racconta del suo viaggio sulla costiera amalfitana, interrotta dalle risate di Federico che si diverte dalle sue imprese. Federico Sorrentini è un ragazzo alto e magro vestito con una lunga giacca a redingote di pelle nera, sotto la quale porta una camicia bianca che lo fa sembrare un signorotto del XVIII secolo, ha la pelle curatissima, un’abbronzatura dorata come detta la moda, tra me penso a quanto tempo quest’uomo deve passare davanti allo specchio, vicino a lui c’è un signore grande e grosso che non conosco, con una barba brizzolata che gli incornicia il volto paffuto, intento nel spalmare su fette di pane la confettura che poi inzuppa nel tè. Alla sua sinistra Alessio Ferrini, un noto architetto bellunese fa ciondolare sopra il tavolo un pendolo formato da un cono in cristallo di rocca appeso ad una catenella d’argento. La luce della stanza irradiata dal piccolo cono proietta sulle pareti arabeschi di colore. Con gli occhi fissi sul pendolo che attraversa gli occhiali dorati dalla montatura rotonda, Alessio fa riflessioni sul cono di luce e finge di non notarmi mentre mi tolgo la giacca e mi accomodo a tavola su invito di Ester, ponendo vicino al cesto del pane i miei vasetti di frutta.
Federico è felice di vedermi e lo esprime con un tale impeto che mi imbarazza un po’ agli occhi dei presenti: si alza da tavola e insiste per servirmi una tazza di caffè, togliendo alla zia questo compito, poi mi bacia la mano, un gesto esagerato che poteva evitare, infine sempre tenendomi la mano mi presenta all’uomo con la barba, che è un suo collega di nome Matteo Accardi, gli altri invitati li conosco anche se è la prima volta che partecipo ad un convivio con loro. La discussione si anima sul dipinto di Felice Casorati che si trova nello studio di Ester: <<quello era lo studio di mio padre, ora è il mio e quel quadro appartiene alla mia famiglia da molti anni>> così lo descrive la padrona di casa: <<una dolce melanconia, una grande pace, come se i sensi vittime di un incantesimo si fossero addormentati. E’ bellissimo quello scorcio di campagna che si può ammirare attraverso la finestra aperta che fa da sfondo ad una fanciulla colta nella sua intimità. Il blu del cielo ed il blu dell’acqua dentro la scodella posta sul tavolaccio di legno si fondono in un tutt’uno e poi le sfumature di verde delle colline italiane. Idilliaco! non trovo nessun’altro aggettivo.>> Ester parla con voce estasiata, sembra persa nei suoi ricordi legati al quadro, Federico, suo nipote la osserva con avidità, dall’espressione del suo volto sembra voler dire:<<Tutto questo un giorno sarà mio compreso quel quadro prezioso>> intanto Matteo per sdrammatizzare la solennità forse un po’ eccessiva con cui l’anziana signora affronta l’arte propone un brindisi con questo motto <<seria è la vita, gaia sia l’arte!>> scoppiando in una risata fragorosa che mette in allegria tutti. Quando la discussione declina in un silenzio imbarazzante per tutta la compagnia, Alessio propone una partita a scala quaranta che viene accolta con un applauso, allora Ester ci invita a trasferirci in salotto, spiegando che lei però preferisce non giocare, neanche io ho voglia di giocare con gran disappunto di Federico che mi voleva in squadra con lui, malgrado le sue insistenze preferisco tenere compagnia a Ester che mi invita nel suo studio per interrogare i tarocchi su di me. Accetto incuriosita e divertita. Lo studio della zia è arredato con alte librerie in legno che accolgono volumi rari e sopra la massiccia scrivania c’è appeso il noto dipinto, in un angolo della stanza, sopra uno scrittoio, vicino ad una lampada liberty c’è un uovo di Fabergè dagli smalti turchini che ha al centro il ritratto di una bella fanciulla, la nonna paterna di Ester.
Lei seduta alla sua scrivania, io seduta di fronte, tira fuori dal cassetto un mazzo di carte e comincia a mischiarle, poi mi invita a tagliare il mazzo in due con la mano destra e rimischia le carte, la prima carta a uscire sul tavolo è la Regina di Coppe che simboleggia la sposa, la madre, la donna dolce e devota, seguita dall’Imperatore e dal due di spade, queste tre carte associate insieme significano amore nascosto e infelice, mi viene in mente Giulietta Capuleti e la sua triste storia d’amore, ma Ester va oltre: mi spiega, senza che io le abbia detto nulla in proposito, il motivo del mio rifiuto a sposarmi e ad avere dei figli, questo rifiuto è la causa di un legame sentimentale infelice vissuto in una vita precedente, forse, Giulietta Capuleti rivive in me rifiutando ogni legame sentimentale, come se la sua vita si riscattasse nella mia dal torto subito nella sua.
Oramai è buio per le strade, mi congedo dalla allegra compagnia che ha deciso di fermarsi lì a cena insistendo perché rimanessi anch’io e ripercorro il borgo illuminato dai lampioni che effondono nel viola della sera una luce ovattata.
Cammino sola e rifletto su me stessa: a questo punto della mia vita sono arrivata alla consapevolezza che le cose hanno un valore più profondo di quello che rappresentano, la gioia che mi da questo viale alberato che attraverso per tornare a casa, il gorgoglio del corso d’acqua, il canto del cuculo in lontananza, probabilmente sono nella mia memoria da molto prima che nascessi.

martedì 10 luglio 2012

«Un’ospite a pranzo» il racconto per il concorso "Indagine su Giulietta" di Sonia Sarti


Per prima cosa stamattina dovrà mettere mano al macinato di carne.
Elena si è svegliata presto, come accade ogni volta che la giornata a venire si annuncia impegnativa,
e si è ripassata nella mente, come un compitino, i preparativi da svolgere per il pranzo.
Poche e semplici portate, ma curate anche nella presentazione. Il punto di forza sarà il polpettone, accompagnato da verdurine, che le riesce in modo eccelso, come a nessun altro. Tutto merito della nonna.
Il polpettone sarà preceduto solo dalla zuppa di zucca, leggera per poter apprezzare meglio la seconda portata.
Per l’occasione, sul tavolo farà bella mostra la tovaglia ricamata a mano con gli intarsi, da cui risalterà il sottotovaglia blu, che si abbina bene al bordo dello stesso colore delle stoviglie di porcellana bianca.
Ieri, al supermercato, ha comprato il necessario per il pranzo di oggi, ma non il macinato di carne. Quello lo ha acquistato alla macelleria. Glielo ripeteva sempre la nonna: “ Guai a fidarsi del macinato dei supermercati, con tutti quei tasselli bianchi di grasso. Non sai mai cosa ci hanno triturato. Dal macellaio scegli il pezzo della carne, ci fai aggiungere della carne di maiale magra, che dà sapore, e controlli che sia tutto  macinato due volte. Deve essere fino e rosso.”
Meglio alzarsi subito, prima che il compagno si svegli. E poi il polpettone deve restare qualche ora a raffreddare  per ottenere delle fette compatte senza sbreccature.
Sguscia dalla camera a piedi nudi, accosta la porta per bloccare il passaggio al più tenue filo di luce. Con passo da gatto raggiunge la cucina e appoggia la porta al battente senza produrre alcun rumore. Ora può accendere la luce e le dita calcolano la pressione sull’interruttore per evitarne il “tac”. Si lava le mani nel bozzetto del ripostiglio, da cui lo scroscio dell’acqua giunge attutito e infila un paio di ciabatte di stoffa. Tornata in cucina, alza il coprivivande e controlla la torta di mele sfornata prima di coricarsi. Sul pigiama indossa il grembiule, si dà una fregatina alle mani, fa un sospirone a pieni polmoni e si mette all’opera.
Versa in una terrina la carne macinata, rossa come le fiamme dell’inferno. Sicuramente la signora Giuliana si aspetta risotto, carne stracotta, polenta e pandoro. Spiacente, risposta sbagliata. Del resto non ne ha mai indovinata una riguardo a lei e alla sua vita.
- Una veneta!- aveva detto a suo figlio, - Una tutta lavoro e carriera. Separata e senza figli. Di sicuro non può averne, altrimenti a quasi quarant’anni…-
- Trentasei, mamma.-
- E io che ho detto? Quasi quaranta.-
Elena vi scoccia un uovo, giallo come la gelosia, e amalgama con il mestolo.
Spesso, per telefono, Giuliana raccomanda al figlio:- Roberto, fai le analisi del sangue, controlla il fegato. Lassù mettono il vino dappertutto. E non mangiare sempre polenta. Fatti una bistecca.-
Mai un pensiero per lei. Giuliana l’ha bandita dai propri registri verbali.
Elena aggiunge il trito di prezzemolo e aglio scacciastreghe e vi fa nevicare due manciate di Parmigiano grattugiato.
Ricorda il detto di sua nonna, risultato delle esperienze estive in Versilia: “Le signore fiorentine si riconoscono dalle altre toscane, dall’altezzosità.”
Con la grattugina spolvera un po’ di noce moscata, che inviperisce il sapore, e completa con una presa di sale.
Quando Roberto si era trasferito da lei a Verona, sua madre lo aveva avvertito:-Io, lassù in mezzo alla nebbia, non verrò mai.- Per due anni ha tenuto fede alla promessa.
Qualche domenica sono scesi loro a Firenze, ma in quella casa Elena si è sempre sentita un’entità senza forma né sostanza: avrebbe potuto non esserci e il risultato della considerazione sarebbe stato lo stesso.

E ora il tocco finale: una mollica di pane, raffermo come il rancore, che Elena inzuppa in una ciotola di latte. La mollica assetata lo assorbe con ingordigia, ma Elena la stringe quanto basta per eliminare il superfluo. Poi la sbriciola nell’impasto per disperderla bene. C’è ma non si deve sentire. Ci penserà il vino bianco, aggiunto a metà cottura, a cancellarne ogni indizio.
Mentre lava la ciotola e la ripone, Elena pensa di essere stata molto paziente. Ha incassato le frasi taglienti, gli sguardi di sbieco, l’indifferenza, grazie anche alla solidarietà di Roberto.
Raccoglie nelle mani l’impasto, rigirandolo fino a formare un cilindro, lo rotola su una carta cosparsa di pangrattato e lo picchietta per farne uscire l’aria intrappolata che ne comprometterebbe la consistenza. Intanto pensa che se Giuliana fosse stata una bambina si sarebbe meritata delle sonore sculacciate.
Adesso può aprire le serrande e rianimare l’appartamento. Dai vetri irrompe la luce dell’esterno, bianca come il latte, che non smentirà Giuliana: “Lassù non vedete mai il mondo, vi finisce a pochi metri.” Dipende dai punti di vista. Sua nonna era solita asserire “Siamo preziosi come il cristallo, quella è l’ovatta che ci protegge.”
A proposito di cristallo, Elena estrae dalla vetrina i calici delle occasioni importanti.
Quando l’hanno informata dell’incidente di Roberto e della mano che gli è stata ingessata, Giuliana ha recriminato contro l’Adige, il Po, la Pianura Padana e tutta la nebbia maledetta. Inutile cercare di convincerla che quel giorno splendeva il sole.
Elena infila nel frigo il Prosecco, che verseranno nei calici per brindare. Al bambino, che arriverà fra sei mesi.
Che faccia farà Giuliana? Quali parole, dure come schegge, riuscirà a scagliare pur di intaccare la sua gioia?
 Elena rigira delicatamente il polpettone che si rosola e diffonde il suo odore e pensa alla nonna, quando diceva sorridendo: ”Se vuoi avvelenare qualcuno, basta fare un polpettone così, poi dentro…”
Il veleno…non esageriamo…Elena non è un’assassina.
Le basta pensare che Giuliana trascorrerà la serata con uno strano disturbo di pancia, necessiterà di correre alla toilette in qualche autogrill. Darà la colpa alla nebbia, che compromette la digestione. Quella nebbia bianca a cui Giuliana ha intolleranza. Come al latte.

lunedì 9 luglio 2012

«Carta Velina» il racconto per il concorso "Indagine su Giulietta" di Anna Rita Lisco

Fanno così soltanto perché è di colore.
Pensavo fossero di idee più aperte e oggi invece mi sono ricreduta. E’ vero ho solo sedici anni ed una vita davanti, ma loro che ne sanno quello che ho dentro. Passeggio avanti e dietro da quasi venti minuti.
Lui mi aspetta giù in macchina. Ha lo stereo acceso, lo sento dalla finestra aperta.
I miei sono intrisi di pregiudizi.
-       Ma Deborah è folle. Ti sei innamorata di un calciatore.  Lo sai quelli come le trattano le ragazzine come te?
-       No. E come?
-       Le usano e basta. E dopo essersi stancati, avanti un’altra!
Questa volta a parlare è mia sorella Daria, che nonostante i suoi 25 anni suonati, ragiona all’antica come mia nonna.
Preferisco non risponderle, tanto lo so che è dalla loro parte. Ma chi se ne frega, possono dire quello che vogliono, io Mario continuerò a frequentarlo. E se si innamorasse davvero di me? E se non fossi una delle tante? In fondo sono stata chiara con lui: per me sarebbe la prima volta.
Lui mi ha dato un buffetto sulla guancia come si fa con le bambine impertinenti.
E’ di una tenerezza disarmante. Ha aggiunto che anche per lui sarebbe la prima volta che si innamora.
Allora è fatta. Davvero. Perché dovrebbe prendermi in giro? E poi questa zavorra me la voglio levare.
Sono stufa di non poter confrontarmi con le altre che lo hanno fatto persino a tredici anni. Ed io qui, ad aspettare il treno su una panchina desolata.
Non voglio essere diversa.
Ho cominciato a fumare di nascosto per darmi un tono. Prendo le pasticche in disco perché così fanno tutti.
Essere fuori è da sfigati.
Mario tutto questo non lo sa, io gli parlo da intellettuale, sa che provengo da una buona famiglia. Antiquata, ma benestante. E’ questo quello che conta.
Si abitueranno i miei. Lo so. Intanto sono ancora qui che logoro il pavimento, in attesa che papà mi conceda il benestare.
-       Io e mamma ne parliamo tra noi e poi ti diciamo cosa ne pensiamo.
Mi hanno liquidata in questo modo, come una bambina che della vita ha ancora da imparare tutto.
Invece mi sa che quello che so io mia madre ai suoi tempi neanche poteva immaginarselo.
Comincio a innervosirmi. Il rimmel sento che cola sulle guancie e il naso è lucido come un pomello.
Per Mario voglio essere perfetta, impeccabile, così ci vogliono i ragazzi. Fanno continuamente confronti con quelle della tv, dicono che quelle si che sono belle e hanno tutto al loro posto.
A diciotto anni, me le rifaccio le tette, così vedremo cos’ altro avrò da invidiare a quelle. Si sono belle ma vuote, io invece sono anche intelligente e qualche volta faccio anche l’elemosina ai poveracci.
Continuo a sistemarmi la cinta dei pantaloni, dove per emergenza ho fatto fare un buco dal calzolaio. Quando l’ho comprata era perfetta, poi Mario mi ha detto che ero troppo in carne e così ho perso qualche chilo per compiacerlo. Ci sono in giro troppi avvoltoi mascherati da gallinelle e Mario me lo voglio tenere stretto ancora per un po’.
Lui l’ambiente lo conosce.
Mi ha detto che mi presenterà un tipo che ha le mani impastate, mi sa un produttore che mi farà fare un provino per qual cosina in TV.
I miei sono solo degli antiquati senza cervello. Non sanno dove voglio arrivare.  Mi tarpano le ali.