mercoledì 25 luglio 2012

«La Regina di Coppe», il racconto per il concorso "Indagine su Giulietta" di Alessandro Dattola


“Quello che chiamiamo rosa, anche con altro nome avrebbe il suo profumo.”
Giulietta Capuleti

Perché non mi sottrai tu che sei l’artefice del tempo?
Sempre più spesso sogno che una divinità delle origini, di quelle che vivevano lungo i fiumi o nei boschi mi sottrae da questa era conducendomi in un luogo sovrannaturale dove ho la sensazione di essere veramente me stessa. Nella vita di tutti i giorni invece non tollero più le strette di mano, i pranzi di lavoro e la suoneria metallica del cellulare, ma soprattutto di fronte a mio padre abbasso lo sguardo e vado oltre. In cuor mio vorrei spiegargli che non mi ritengo una disadattata sociale perché a quarant’anni non sento la necessità di sposarmi e di avere dei figli, questa mia scelta viene vissuta dai miei genitori come un oltraggio nei loro confronti. Essendo l’unica discendente di una famiglia di imprenditori molto stimati vorrebbero da me degli eredi, possibilmente maschi. I miei genitori non hanno capito che per me è più importante muovermi all’interno del tempo, dello spazio e del suono secondo metri personali. Sono stufa delle regole convenzionali della società.
Almanaccando questi problemi cammino per le strade del centro storico. Fa freddo e cadono dal cielo granuli di nevischio argenteo. E’ bellissimo quando un raggio di luce si riflette su queste particelle perché sembra di procedere attraverso la Via Lattea.
Ora imbocco Via Colle dell’ortica ed entro in una libreria che vende libri usati, giro e rigiro tra gli scaffali dove sono ammucchiati disordinatamente volumi di tutti i generi e scopro usurato dal tempo: “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare in una vecchia edizione popolare del 1908, epoca in cui queste opere incominciavano ad avere una divulgazione più vasta. Con pochi soldi mi porto via questo libro e pagina dopo pagina, parola dopo parola, m’impregnerò di questo dramma che ha attraversato i secoli fino a raggiungere la nostra epoca e chissà quante epoche vedrà ancora.
Cammino a passi svelti per vincere il freddo, avvolta nella mia mantella di cachemire nero con il cappello a falda larga che mi ripara la testa. Nella tasca interna della giacca tengo protetto il mio acquisto e sfidando il cattivo tempo raggiungo finalmente casa. Mi preparo cena: brodo di carne e fette di pane abbrustolito spalmate di paté di fegato, dopo aver mangiato lavo le stoviglie utilizzate e le ripongo nell’acquaio ad asciugare, finalmente sono libera di dedicare tutto il tempo che resta della giornata a me stessa. Prima di addormentarmi leggo un po’ sdraiata sul sofà del salotto in compagnia della mia gatta Briciola che nutre la mia tenerezza strofinando il suo manto nero e vellutato contro le mie gambe. Per farle capire che le voglio bene la prendo in braccio e la bacio sotto il mento fino a quando contenta di aver ricevuto da me le attenzioni richieste si raggomitola nella poltrona e s’addormenta. Fuori la nebbia di fine novembre ammanta i campi di granturco, densa si spande su tutta la pianura. Nell’intimità della vita domestica ritrovo me stessa: vorrei che la solitudine, la lettura e la contemplazione diventino le fondamenta del mio benessere interiore. Osservo dalla finestra della mia camera le montagne, e da qualche parte in me sopraggiunge il ricordo degli anni universitari, quando passavo le notti estive a questa finestra ad immaginare l’impossibile quadratura del cielo.

La prima cosa di cui ho bisogno al mattino è un buon caffè bollente, pregusto il suo sapore ancora prima di riacquistare il senso dello spazio e del tempo, del sogno mi è rimasta una sensazione incantevole, forse sognare è l’unico modo che abbiamo per comunicare con gli Dei. Eccomi, come ogni mattino ritornata da quel viaggio, riapro gli occhi, afferro con le braccia il cuscino e ci affondo la testa per assaporare ancora qualche minuto di sonno, ma ormai il viaggio è finito, lo capisco dai rumori che arrivano dalla strada. Sono ancora sotto la coltre di lana morbidissima, avvolta nel pigiama di flanella, la casa è fredda e fatico ad alzarmi, con uno sforzo tiro via le coperte e con uno scatto mi ritrovo seduta con i piedi gelidi infilati nelle pantofole, poi prendo il plaid dal letto ancora caldo del mio corpo, mi ci avvolgo dentro e mi avvicino alla finestra, tiro le tende, e scopro con gran meraviglia la brina, che come una Dea ha rivestito i tetti, la strada, il piccolo cortile della casa confinante dove la signora Caterina tutta intirizzita dal freddo sta ritirando la roba stesa, dalle grondaie scendono coni di ghiaccio. Penso che sia di buon auspicio scambiare quattro chiacchiere con la vicina, apro la finestra e la saluto: <<Buon giorno signora>> <<Buon giorno cara>> mi risponde, mentre continua a ritirare la roba stesa: <<ha visto che tempo, mi si è gelata tutta la biancheria>> <<ha passato bene il fine settimana?>> le chiedo, <<Si, è venuto mio figlio con la sua famiglia. E lei?>> <<mah, niente di speciale, sono rimasta a casa>> <<ha fatto bene, con questo tempo … arrivederci>> <<arrivederci signora >>
Avvolta nella coperta, scendo in fretta le scale che dal piano superiore della casa portano ai vani sottostanti, entro in cucina e preparo la caffettiera, e mentre è sul fuoco corro in sala ad accendere il camino, oggi Agnese non c’è, dovrò fare tutto da sola, e domani la sentirò brontolare per il disordine che ho lasciato e che lei quando sono sola in casa non si sente tranquilla ed è con il pensiero sempre a chiedersi: mangerà?, dimenticherà qualche cosa sul fuoco?, starà al caldo?, tutte le volte devo sorbirmi la tiritera che è stufa e che alla fine se n’andrà e poi vorrà vedere come me la caverò. Non lo farebbe mai, anche se queste cose me le ripete tutti i giorni, ormai da dieci anni.
Mentre faccio la doccia rifletto sul libro che sto leggendo, mi domando che donna infelice sia stata la madre di Giulietta Capuleti, Donna Capuleti, passata di proprietà da un padre intransigente ad uno sposo attaccato alle tradizioni a tal punto da sacrificare sua figlia ad esse. Questa donna che pende dalle labbra di un marito onnipotente, che a tredici anni diventa moglie e madre e che, annientata completamente nella sua personalità costringe la figlia a diventare come lei, ammonendola ogni volta che si lascia andare ai sentimenti.
Mi vesto in fretta, prendo la macchina e attraverso il traffico cittadino per raggiungere il lavoro, come arrivo la segretaria mi dice che mio padre vuole vedermi nel suo ufficio, sulla mia scrivania alle otto di mattina c’è già una lunga lista di appuntamenti, tra cui un invito da parte di Federico Sorrentini per il pomeriggio, vorrei evitare questo incontro. Squilla il telefono, è mio padre che mi cerca ...
Come sempre quando entro nel suo gabinetto privato ho un po’ di soggezione, lui indossa un vestito scuro e la cravatta malva con il giglio fiorentino ricamato in oro, dono della mamma e mio per il suo compleanno. Il busto dritto e slanciato malgrado i suoi sessantacinque anni, i capelli ondulati perfettamente pettinati, bianchi con i riflessi argentei come i baffi lo fanno sembrare un patriarca delle ere antiche, dopo avermi baciata sulla fronte si accomoda alla sua scrivania e con un’espressione pensosa mi dice: <<Cara Giulietta, mi ha telefonato Federico Sorrentini e mi ha espresso il desiderio di vederti>> tentenno un po’ con la voce, balbetto, ma mi riprende dicendomi: <<ha organizzato una merenda alle cinque a casa di sua zia Ester, avrai già sentito parlare di lei: è diventata famosa anni fa per le sue presunte doti divinatorie, molto ricca lascerà a Fabrizio l’intera proprietà poiché è l’unico erede. Se poi non ti aggrada frequentarli potrai sempre declinare altri inviti, ma è giusto che a questo tu ci vada …>> e con un profondo sospiro di disapprovazione poiché deve aver letto sul mio viso il rammarico a partecipare a quella festa mi congeda. Esco dall’ufficio visibilmente contrariata e senza pensare a quello che sto facendo chiedo in maniera meccanica alla segretaria di avvisare l’avvocato Sorrentini che alle cinque sarò a casa di sua zia. Quando prendo coscienza di ciò che mio padre riesce a farmi fare senza che io riesca a controbattere provo un senso di frustrazione tale che vorrei piangere, ma non posso perché intanto squilla il telefono e soffocando un sussulto mi metto a lavorare.
Attraverso a piedi l’incantevole rione dove si trova villa Sorrentini, ogni scusa è buona per fermarmi: ora per accarezzare un grosso spinone nero che mi viene incontro dalla direzione opposta, ora per bere dal lavatoio di pietra dove scorre un’acqua fresca e limpida. I luoghi che ammiriamo lasciano tracce dentro di noi e queste tracce registrate dalla memoria plasmano un luogo ideale.
Per l’occasione ho trovato elegante preparare un cesto con dentro piccoli vasetti di confetture e frutta sciroppata da regalare alla anziana signora che ha organizzato questa merenda.
Marmellata di mirtilli e caffè con zollette di zucchero servito in piccole tazze di fine porcellana in una dolce sfumatura di bianco. Quando entro nella stanza si ode un delicato tintinnio di posate. Attorno ad una tavola rotonda imbandita come una natura morta, bottiglie di cristallo di Boemia, un cesto di vimini per contenere il pane e la vecchia fruttiera liberty colma di arance e mele, siedono due donne e tre uomini. La padrona di casa serve il caffè: ci riceve nel suo tubino nero dove spicca un girocollo di perle d’una eleganza sobria, dimostra circa settant’anni, ma si dice ne abbia di più: ha i capelli bianchi, ondulati, gli occhi di un azzurro intenso. Alla sua destra in un vestito di velluto nero è accomodata Maria Teresa Castelfrassino: aristocratica padovana che anni fa mi volle come membro onorario nella sua associazione culturale, la sua fondazione si occupa di difendere la cultura dalla mercificazione che come dicono loro: <<… ormai imperversa, gettando l’umanità in una crisi di valori spirituali>>, ora questa donna che ottuagenaria viaggia, fa conferenze, riceve amici da tutto il mondo, disposta senza battere ciglio ad alzarsi alle due del mattino per soccorrere un qualsiasi infelice che ha bisogno d’assistenza, pronta a privarsi di un bene di famiglia per ricavarne denaro al fine di aiutare un immigrato ad entrare nel nostro paese, diventò stizzosa nei miei confronti quando le confessai di tenere nel portafoglio una foto della mia nonna defunta, considerando la nostalgia per la nonna defunta una debolezza umana e non un nobile gesto mosso dalla carità cristiana. Essa racconta del suo viaggio sulla costiera amalfitana, interrotta dalle risate di Federico che si diverte dalle sue imprese. Federico Sorrentini è un ragazzo alto e magro vestito con una lunga giacca a redingote di pelle nera, sotto la quale porta una camicia bianca che lo fa sembrare un signorotto del XVIII secolo, ha la pelle curatissima, un’abbronzatura dorata come detta la moda, tra me penso a quanto tempo quest’uomo deve passare davanti allo specchio, vicino a lui c’è un signore grande e grosso che non conosco, con una barba brizzolata che gli incornicia il volto paffuto, intento nel spalmare su fette di pane la confettura che poi inzuppa nel tè. Alla sua sinistra Alessio Ferrini, un noto architetto bellunese fa ciondolare sopra il tavolo un pendolo formato da un cono in cristallo di rocca appeso ad una catenella d’argento. La luce della stanza irradiata dal piccolo cono proietta sulle pareti arabeschi di colore. Con gli occhi fissi sul pendolo che attraversa gli occhiali dorati dalla montatura rotonda, Alessio fa riflessioni sul cono di luce e finge di non notarmi mentre mi tolgo la giacca e mi accomodo a tavola su invito di Ester, ponendo vicino al cesto del pane i miei vasetti di frutta.
Federico è felice di vedermi e lo esprime con un tale impeto che mi imbarazza un po’ agli occhi dei presenti: si alza da tavola e insiste per servirmi una tazza di caffè, togliendo alla zia questo compito, poi mi bacia la mano, un gesto esagerato che poteva evitare, infine sempre tenendomi la mano mi presenta all’uomo con la barba, che è un suo collega di nome Matteo Accardi, gli altri invitati li conosco anche se è la prima volta che partecipo ad un convivio con loro. La discussione si anima sul dipinto di Felice Casorati che si trova nello studio di Ester: <<quello era lo studio di mio padre, ora è il mio e quel quadro appartiene alla mia famiglia da molti anni>> così lo descrive la padrona di casa: <<una dolce melanconia, una grande pace, come se i sensi vittime di un incantesimo si fossero addormentati. E’ bellissimo quello scorcio di campagna che si può ammirare attraverso la finestra aperta che fa da sfondo ad una fanciulla colta nella sua intimità. Il blu del cielo ed il blu dell’acqua dentro la scodella posta sul tavolaccio di legno si fondono in un tutt’uno e poi le sfumature di verde delle colline italiane. Idilliaco! non trovo nessun’altro aggettivo.>> Ester parla con voce estasiata, sembra persa nei suoi ricordi legati al quadro, Federico, suo nipote la osserva con avidità, dall’espressione del suo volto sembra voler dire:<<Tutto questo un giorno sarà mio compreso quel quadro prezioso>> intanto Matteo per sdrammatizzare la solennità forse un po’ eccessiva con cui l’anziana signora affronta l’arte propone un brindisi con questo motto <<seria è la vita, gaia sia l’arte!>> scoppiando in una risata fragorosa che mette in allegria tutti. Quando la discussione declina in un silenzio imbarazzante per tutta la compagnia, Alessio propone una partita a scala quaranta che viene accolta con un applauso, allora Ester ci invita a trasferirci in salotto, spiegando che lei però preferisce non giocare, neanche io ho voglia di giocare con gran disappunto di Federico che mi voleva in squadra con lui, malgrado le sue insistenze preferisco tenere compagnia a Ester che mi invita nel suo studio per interrogare i tarocchi su di me. Accetto incuriosita e divertita. Lo studio della zia è arredato con alte librerie in legno che accolgono volumi rari e sopra la massiccia scrivania c’è appeso il noto dipinto, in un angolo della stanza, sopra uno scrittoio, vicino ad una lampada liberty c’è un uovo di Fabergè dagli smalti turchini che ha al centro il ritratto di una bella fanciulla, la nonna paterna di Ester.
Lei seduta alla sua scrivania, io seduta di fronte, tira fuori dal cassetto un mazzo di carte e comincia a mischiarle, poi mi invita a tagliare il mazzo in due con la mano destra e rimischia le carte, la prima carta a uscire sul tavolo è la Regina di Coppe che simboleggia la sposa, la madre, la donna dolce e devota, seguita dall’Imperatore e dal due di spade, queste tre carte associate insieme significano amore nascosto e infelice, mi viene in mente Giulietta Capuleti e la sua triste storia d’amore, ma Ester va oltre: mi spiega, senza che io le abbia detto nulla in proposito, il motivo del mio rifiuto a sposarmi e ad avere dei figli, questo rifiuto è la causa di un legame sentimentale infelice vissuto in una vita precedente, forse, Giulietta Capuleti rivive in me rifiutando ogni legame sentimentale, come se la sua vita si riscattasse nella mia dal torto subito nella sua.
Oramai è buio per le strade, mi congedo dalla allegra compagnia che ha deciso di fermarsi lì a cena insistendo perché rimanessi anch’io e ripercorro il borgo illuminato dai lampioni che effondono nel viola della sera una luce ovattata.
Cammino sola e rifletto su me stessa: a questo punto della mia vita sono arrivata alla consapevolezza che le cose hanno un valore più profondo di quello che rappresentano, la gioia che mi da questo viale alberato che attraverso per tornare a casa, il gorgoglio del corso d’acqua, il canto del cuculo in lontananza, probabilmente sono nella mia memoria da molto prima che nascessi.

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