mercoledì 29 agosto 2012

«Postulato» il racconto di Pierangelo Federici per il concorso "Indagine su Giulietta"


Per una associazione di idee quasi meccanica ho sempre pensato che la linea curva sia femmina e la linea retta maschio. È vero, ho sempre pensato a un paradosso. Ma la geometria in fondo è un po' assurda: quell'insieme di regole che risolve e semplifica la vita. Una, una sola retta può incontrare una circonferenza in un unico punto, ed è qundi per via della tangente che non mi sono sposato. Semplicemente ho vagato nello spazio sommando punti, ordinandoli in avanti.
Eppure esistono infiniti modi di congiungere due punti.

Mi chiamo Romeo e la sveglia suona da tre anni tutte le mattine alle sei e mezza, domeniche comprese. E' assolutamente necessario alzarsi da destra perchè, se avessi una donna, lei dovrebbe dormire alla mia sinistra. Le ciabatte, parallele sul pavimento, disegnano un perfetto angolo retto col bordo del letto. E' un piacere sottile penetrarle con i piedi nudi, sono aperte ed accoglienti, novanta gradi di piacere. Ci sono quattordici passi per arrivare di fronte alla scritta "Cesame" della tazza del cesso che riflette, ceramica curva, la poca luce della stanza da bagno. Mi tocco sempre volentieri, anche solo per distillare in caduta le ultime goccie di quello che rimane della Garganega DOC dei colli di Soave. Ho bevuto durante l'ennesima notte insonne.

Quando chiudo la porta di casa con nove movimenti rotatori, divisi per tre serrature di sicurezza disposte in modo equidistante sull'altezza del piano verticale, sono già alla terza sigaretta e di me stesso non è cambiato molto da quando mi sono alzato dal letto. Mi lavo così. Sarebbe una perdita di tempo pettinare i pochi capelli che mi sono rimasti. Lo specchio è ancora imballato nel cartone da quando, più di tre anni fa, ho preso in affitto questo appartamento che è solo un quadrato difficilmente inscrivibile nel cerchio del mondo. La cura più meticolosa la dedico ad altre cose, per esempio ad indossare la stessa camicia per il sesto giorno consecutivo in modo che il colletto non tradisca la sua poca voglia di incontrare, ancora una volta, il mio collo.

A Verona c'è la puzza, sempre quella, di migliaia di sacchi della spazzatura che il camion della nettezza urbana va raccogliendo. E' un logaritmo preciso ed esponenziale la puzza di spazzatura di questo quartiere di nuova edificazione. Ancora qualche famiglia e l'aria sarà veramente irrespirabile.

L'autobus arriva preciso come un teorema alla fermata e subito riparte, rumoroso e arrogante, chiudendo le porte sulla faccia di quella donna. Succede quasi sempre e io resto lì a guardarla attraverso il vetro sporco, sempre più piccola sul marciapiede che si allontana.
No, questa mattina le venti smorfiosette alle quali insegno geometria alla scuola femminile del Sacro Cuore di Montecchio Maggiore possono aspettare o andarsene a quel paese. Questa mattina voglio vedere da vicino quei due occhi pieni di odio sui quali rifletto e mi specchio tutti i giorni.
Mi metto a urlare e l'autista frena duecento metri dopo essere ripartito. Il tempo di scendere, con il piede destro come la punta di un compasso, al preciso centro di una grande pozzanghera d'acqua sporca. L'autobus se ne va portando con se l'ordine geometrico, il sistema algebrico di una vita. La mia vita: mi chiamo Romeo e la sveglia suona da tre anni tutte le mattine alle sei e mezza, domeniche comprese.
Lei è ancora ferma con i pugni chiusi a bestemmiare tra se. Accenna uno sguardo verso me, non è né brutta né bella. Ma quale valore estetico può avere una linea curva? Mi avvicino lasciandomi dietro una serie intermittente di impronte bagnate sul marciapiede. Mi guarda, finalmente, e su quella faccia pallida, emaciata, sotto quei lunghi capelli biondastri rinchiusi in una treccia, ci sono i suoi occhi: due sfere nere incastrate sopra a zigomi troppo segnati. Le sue non sono guance comuni, sono triangoli rettangoli che chiudono una smorfia sottile. Subito vorrei appoggiarmi al quadrato costruito su quell’ipotenusa che scivola verso la bocca. Uno slancio nuovo si impadronisce delle mie vene, guardandola il sangue scorre e formicola indecente verso la semiretta oscena che ha sempre costituito la sintesi dei miei pensieri. Non ho più pudore e lei capisce. Mi dice qualcosa come "ormai l'autobus è andato... anche oggi ho perso la giornata di lavoro" e poi ancora due parole sul suo capo ufficio, tale Tebaldo. Il decimetro impunito prende a pulsare, sconcio, senza più controllo. Resto zitto, paonazzo davanti al calcolo matematico complesso di un dialogo che non avrei mai dovuto affrontare. Mi parla ancora e si avvicina alla mia faccia come per mettere a fuoco: "...ho le chiavi del capanno nel giardino del castello". La voce è roca, soffia eccitante. Sei per sette: quarantadue! È come se il tempo si fosse fermato, siamo già dentro a questa fredda baracca.
Non so cosa fare. Tutte le regole sono saltate, muovo le mani goffamente sui suoi abiti e poi sulla sua pelle, ma non sento niente. Nessun rumore, nessun odore. Otto per cinque: quaranta!
I miei sensi sono rimasti su quell'autobus insieme a Pitagora e davanti agli occhi ho sempre due sfere nere che mi fissano. Lascio fare tutto a lei. Ma tutto cosa?
Le tabelline! Ecco, devo fare un altro sforzo per ricordare, un altro piccolo sforzo per cercare di liberarmi da una morsa che mi tiene inchiodato a questa sedia.
Ecco ora ricordo: sette per sei, lei mi bacia sui lobi, la radice quadrata di 144, mi lecca le orecchie e sento l'umido della sua saliva, dodici!
Eureka! Il teorema si è fatto grosso, l'intuizione giunge come un'orgasmo, paradigmatica, totalizzante e assoluta. Quattro per tre: devo spezzare questa linea curva, tutto il sistema decimale, questa femmina impudica e senza regole. Devo!
Mi bagno i pantaloni.

Ma le linee curve, a differenza delle rette, si piegano, sfuggono alla presa e non hanno di norma la rigidità sufficiente. Così per un attimo mi perdo nei calcoli e intanto lei ha tirato fuori sottili strisce di stoffa che ormai mi legano inesorabilmente al legno ruvido e freddo di una sedia nel capanno del giardino del castello. Lei gioca, io calcolo, sommo, moltiplico, conto e riconto.
Quando decide di andarsene è notte. Mi lascia legato e imbavagliato dentro al capanno. Prima di chiudere il coperchio del mio freddo sarcofago si gira e, ancora una volta, due sfere nere mi guardano scintillando nel buio. Sono solidi geometrici costituiti da tutti i punti che sono a uguale distanza da un solo punto detto centro. Dice: “… mi chiamo Giulietta e il mio orologio è rotto. Quel bastardo del mio ex ragazzo fa l’autista. L’avevo avvisato: col tuo cazzo di autobus, lasciami un’altra volta a piedi e … Ma questa è un’altra storia.”
Sono legato, imbavagliato e mi si è fermata anche la capacità di calcolo. Resto immobile nel mio terrore, mentre lei continua: “credevi non ti avessi notato? Credi di essere trasparente? Stronzo, sono tre anni che ti osservo!” Deglutisco e penso che mi chiamo Romeo, la mia sveglia suona da tre anni tutte le mattine alle sei e mezza. “Stronzo, mi devi sposare, quanto è vero che mi chiamo Giulietta! Domani mattina torno qui e tu mi dici di sì. Capito? Hai tutta la notte per pensarci…” Se ne va sbattedo la porta: “non scherzo affatto, stronzo!”
Euclide aveva ragione, sul piano della vita, da un punto e' possibile tracciare solamente una parallela alla retta data.

lunedì 27 agosto 2012

«GIULIETTA AND THE FABULOUS FOUR» il racconto di Rossella Menichetti per il concorso "Indagine su Giulietta"


-Medemoiselle Giulietta Capuleti è desiderata alla reception  AD padiglione  16 dell’ala est del paradiso-
L’angelo Annunciatore dovette ripetere per ben tre volte l’avviso prima che questo potesse essere captato dalla giovane ragazza intenta com’era a ricamare su una tela di lino le proprie iniziali e quelle del suo amato.
Non riusciva a credere alle proprie orecchie, erano più di settecento anni che attendeva un qualsiasi messaggio e ora ,che finalmente veniva convocata, indugiava a muoversi, era come se quelle parole l’avessero paralizzata.
L’ago che teneva tra l’indice e il pollice era rimasto in sospeso all’altezza dei suoi grandi occhi ornati da ciglia setose, il filo lucido e ritorto era teso al massimo e formò una serie di piccoli cerchi concentrici nel momento che lei  mise a riposo quel minuscolo strumento di spasso e di
lavoro.
L’ordito s’increspò leggermente per la spinta frettolosa della cruna e l’ago parcheggiato nella lettera R artisticamente decorata richiamò l’attenzione del suo sguardo e del suo cuore e rimase ancora intrappolata per alcuni istanti nel flusso dei ricordi.
Sfogliò le pagine della sua vita e le più belle le diedero l ‘impulso di precipitarsi senza indugiare, attraversò con leggiadria lo spettacolare giardino dell’Eden e giunse a una maestosa scalinata a doppia rampa, non fece in tempo ad appoggiare la scarpina di raso lucente sul primo gradino che fu investita da una emozione profonda .
-       Venga pure da me.- La esortò un angelo dal piumaggio azzurro, il più alto tra i tre incaricati di districare le pratiche più urgenti.
-       Si sieda pure signorina  - incalzò lui aggiustandosi gli occhiali dalla montatura  leggerissima
e raffinata. L’angelo li aveva avuti in regalo da un giornalista polacco una quindicina di anni fa quando andò sulla terra  per l’operazione “ Maida frost “ e da allora non se ne era più separato.
-   Si  metta comoda e si rilassi – proseguì rassicurante – sa bene che le comunicazioni riguardanti l’utenza di questo luogo ameno possono essere solo di tre livelli: gradite, molto gradite o graditissime.-
Detto ciò l’angelo sventagliò sulla superficie del tavolo tre buste della stessa dimensione,ma diverse per la tinta della carta poi schiarendosi la voce aggiunse:
-       Ne scelga una, quella che preferisce.-
La ragazza era titubante, cosa contenevano quelle missive? Si trattava forse di un gioco a premi o di una specie di quiz televisivo? Le sfiorò delicatamente senza decidere quale prendere.
L’angelo vedendo la ragazza così  perplessa cercò di rassicurarla :
-       Sappia mia cara che in ognuno di quei plichi è contenuto un desiderio, non abbia paura di sbagliare.-
-       Sì, ma ci sono desideri piccoli e altri  così grandi che non osi nemmeno immaginare per non restare delusa. –
-       Su, su signorina i desideri sono sempre desideri e quando si realizzano ci regalano sempre gioia .
Sagge parole,ma Giulietta era incerta quanto prima.
Decise allora di affidarsi al caso, canticchiò una vecchia filastrocca puntellando ad ogni rima baciata l’angolo estremo delle buste e quando la melodia cessò estrasse un foglietto quadrato con al centro una scritta in gotico romanico: - Complimenti! Hai vinto un fantastico weekend sul pianeta Terra! –
-       Evviva! – esultò Giulietta schizzando in aria carica di gioia poi si ricompose e chiese: - …e Romeo, quando e dove potrò incontrarlo?-
-       Una domanda alla volta signorina ed attenda un attimo per ulteriori dettagli.- L’angelo aprì il secondo cassetto della scrivania in noce e consegnò alla ragazza un piccolo oggetto non più grande di una scatola di fiammiferi e .protetto da una cover nera in lega di magnesio.
-       Ne abbia cura,questo è il suo personale “trova- persone” che le consentirà di rintracciare il suo Romeo; dall’ultimo bollettino risulta soggiornare a Verona.
-       Come! Romeo si trova già sul pianeta  Terra?-
-       Sì,-annuì l’angelo consultando attentamente il tablet- da quanto posso vedere il viaggio non ha avuto imprevisti e lui è giunto a destinazione in perfetto orario alle 8,45-
Non fece in tempo a pronunciare l’ultima cifra che Giulietta si precipitò con la leggerezza e la velocità di una gazzella verso l’ascensore per il piano Terra,la gonna scarlatta sfiorò il pavimen-to vitreo e sparì al chiudersi delle porte metalliche.
L’angelo trasalì per lo stupore, roteò di quarantacinque gradi sullo sgabello in polipropilene e
manifestando apertamente il  suo dissenso gridò con quanta voce aveva nei polmoni:-Si fermi
signorina, deve prima frequentare il corso di aggiornamento!-
Parole inutili che si persero nell’aria dolce del Paradiso.
Chi e cosa poteva salvare Giulietta dalle insidie e dai pericoli del mondo odierno?
L’angelo convocò allora Fra Lorenzo, gli spiegò l’accaduto e lo incaricò di seguire e proteggere la ragazza che nel frattempo ,giunta a destinazione ,era rimasta un po’ delusa  per l’assenza di giocolieri e saltimbanchi nelle vie dei borghi della sua Verona.
Non c’era traccia neppure di tamburini e cantastorie e  l’atmosfera che si respirava era frenetica e convulsiva così cercò di ricacciare nella sacca della memoria quelle cianfrusaglie di ricordi che le impedivano di concentrarsi.
Il  “trova - persone” le segnalò un itinerario dettagliato,percorse diligentemente un lungo viale caratterizzato da eleganti costruzioni Liberty, svoltò a destra lasciandosi alle spalle una abitazione in pietra  con un balconcino e un pergolato completamente nascosti da una cascata di gelsomini. Il profumo era denso ed inebriante e placò la sua struggente nostalgia di primavera.
S’incanalò in una traversa lastricata da grandi pietre grigiastre e giunse in una ampia strada del
centro costellata da scritte coloratissime e fluorescenti insegne al neon.
Si limitò a seguire le istruzioni e si ritrovò in una specie di gigantesco igloo metallico dalle pareti in acciaio e con un pavimento completamente rivestito da una sontuosa moquette color rosso Baccarat.
Giulietta non aveva mai visto una discoteca e rimase quasi folgorata da quelle luci laser che tagliavano il buio mentre il fracasso assordante e il tramestio del luogo la risucchiarono in un vortice di disordinata sconcertante allegria.
“Bip-bip-bip…..”il “trova – persone” iniziò ad emettere un suono intermittente e prolungato,aveva captato la presenza di Romeo così Giulietta euforica iniziò a guardare a destra e a sinistra, in alto e in basso ma del suo amato non c’era traccia. Eppure quel bip-bip,quasi fastidioso ai timpani continuava a segnalare il successo del ritrovamento,ma dove mai si era cacciato? Provò a cambiare posizione, due passi avanti, uno indietro,avanzò in diagonale; il suono intermittente divenne fragoroso e lei iniziò a ispezionare con lo sguardo ogni centimetro quadrato, ogni angolo nascosto e proprio dinanzi a lei, riflesso sui vetri opachi di numerose bottiglie vuote di birra ,tequila e chambrè  di ottima qualità, scorse un volto a lei familiare.
Pelle  levigata, sguardo profondo e carisma irresistibile,Romeo sembrava attendere qualcuno e si mostrava quasi infastidito dalla ragazza che gli stava accanto e lo fiutava come se fosse una preda. Giovane scapestrato aveva un cuore sincero e si sentì a disagio quando la cubista con il decoltè coperto soltanto con vistosi bijoux  reperiti al mercatino rionale si avvicinò con audacia a lui e senza preavviso gli appiccicò le gonfie labbra di vinile sulla guancia .
Il contatto durò pochi secondi sufficienti per far andare su tutte le furie Giulietta, l’amore era uscito dagli intrecci della trama originaria di Shakespeare a causa di una stupida donna di plastica che esternava un interesse convulsivo e tormentoso,per il bel Romeo. Il make-up era perfetto,il vestito aderente lasciava intravedere curve generose,ma  non c’era niente in lei di romantico e profondo .Giulietta   la percepì non come una rivale,ma come un essere gelatinoso,molle, capace tuttavia di ferirla e di procurarle un dolore indicibile ed un’ira non controllabile che la spinse a sfilarsi la fede dall’anulare per scagliarla contro Romeo e fuggire con il viso rigato di lacrime facendosi prepotentemente largo tra la folla euforica e spensierata. Un movimento brusco e un passo non misurato violarono l’equilibrio di un lucente vassoio e la camicia candida di un barman dal sorriso luminoso e la pelle color tabacco assorbì i colori dell’arcobaleno mentre parte dei liquidi e dei pezzi di frutta finirono sul pavimento. Alquanto contrariato e senza  mezzi giri di parole, il giovane arabo  si rivolse a Giulietta in modo ruvido e diretto mentre cercava di raccattare pezzi di ananas e ribes prima che questi finissero spiaccicati dalla calca della folla.
Incurante di quanto accaduto e con gli occhi velati Giulietta avanzava, ma prima di raggiungere l’uscita una figura dall’andamento eretto e con una borsone che gli segava la spalla la fermò e la cullò tra le sue braccia paterne.
-Che succede piccola mia? –
-Oh, Fra Lorenzo soffro tanto a causa dell’infedele – piagnucolò lei.
Deciso e sicuro di sé, il frate si avvicinò minaccioso al barman ancora accovacciato alla ricerca del fondo di un bicchiere rotto nell’impatto.
-       Non lui! – Chiarì Giulietta con un filo di voce smorzata dal pianto- Si tratta di Romeo!- E con il dito indicò il romantico divanetto dal profilo arrotondato che il suo sposo divideva con un’altra donna.
-       Si è lasciato baciare e ora io voglio solo morire! –
-       Non è il caso di drammatizzare –sentenziò il frate-e poi tu non puoi morire!-
-       Perché mai?- Chiese stupita Giulietta
-       Perché sei già morta – Le sussurrò in un orecchio, poi presa per mano lei ed afferrato Romeo con uno strattone, condusse la coppia dinanzi ad una anonima utilitaria . Non lasciò spazio alle proteste dei giovani, invitò lei a sedere sul sedile posteriore e Romeo alla sua destra poi, con un lamentio raschiante ,accese il motore; l’ultima autovettura che aveva guidato era stata una 2CV durante la precedente discesa sul pianeta Terra risalente agli anni sessanta. Dopo  lo scossone iniziale e un paio di giri a vuoto dei pneumatici l’auto attraversò ad una velocità molto prudente le vie cittadine. Fra Lorenzo stringeva forte il volante, era un po’ teso per la guida e quel broncio stampato sul visino di Giulietta non gli facilitava il compito .La ragazza non voleva saperne di perdonare Romeo che ,dal suo punto di vista ,si sentiva perfino offeso perché riteneva ingiuriose le accuse della sua amata. Tra i due iniziarono vivaci scambi di battute al punto che Fra Lorenzo perse la sua flemmatica pazienza, premette l’acceleratore a tavoletta, frenò bruscamente ed estrasse dal cruscotto un CD, la custodia in carta riciclata color paglierino riportava il titolo “ Corso di aggiornamento  - adattamento per il pianeta Terra “.Sollevato al pensiero che quel piccolo disco avrebbe risolto ogni problema lo inserì nel computer di bordo ma sullo schermo sottile ed ultraleggero non apparve il professor Roger per spiegare l’evoluzione storica degli ultimi sette secoli ma quattro magici ragazzi di Liverpool che giocavano a fare i duri e  che con le corde delle loro chitarre sapevano parlare di pace e d’ amore. Il frate si stropicciò gli occhi, deglutì per l’imbarazzo e si mise alla ricerca del CD originale  senza rendersi conto che quella melodia cristallina stava conquistando anche lui. Rovistò in ogni angolo e nel momento trionfale del recupero decise che non era il caso di visionarlo per non interrompere la più travolgente favola mai ascoltata.
Senza preavviso la passione, mai spenta, aveva avuto il sopravvento, Romeo, trascinato dalla forza del suo desiderio, stringeva teneramente tra le mani la testa riccioluta e libera di Giulietta. Piena di sogni e di struggenti ricordi, la testa si lasciò trasportare dal linguaggio del cuore,il collo si inarcò, le labbra si sfiorarono e una scossa inebriante attraversò ogni singola cellula.
Fu allora che Fra Lorenzo con un self – control tutto anglosassone aprì la portiera, si sedette sul marciapiede e dalla sua sacca tirò fuori un pacchetto di sigarette, lo rigirò più volte tra le dita, trovò umoristica la scritta “ il fumo nuoce gravemente alla salute “ e con una serenità infinita aspirò il fumo aromatico e amarognolo  disegnando una serie di cerchi concentrici che si dileguavano man mano che salivano verso una striscia  di cielo color cobalto sovrastante Verona.

«Nati sotto maligna stella» il racconto di Elisbetta Amoroso per il concorso "Indagine su Giulietta"




Il dividersi è un dolore così dolce che continuerei a darti la buonanotte fino a domani mattina

Sabato 12 Maggio
Caro diario,
oggi è stata una giornata stupenda. Per prima cosa stamattina mi sono trovata tre etti in meno sulla bilancia e poi, cosa ancora più importante, mi ha chiamato Roman. Lo sapevo che lo avrebbe fatto, sono sicura di piacergli e anche lui mi piace. Non me ne frega niente se lo ha capito, con lui non me la voglio tirare perché  lui è il ragazzo per me.
L’ho conosciuto ieri sera alla festa di compleanno della Martina che faceva quattordici anni. Mi guardava come se fossi la cosa più bella che avesse mai visto e poi mi ha chiesto di ballare e abbiamo ballato un lento e lui mi stringeva con quelle mani grandi e calde e io mi sentivo tanto bene tra le sue braccia. Poi è successo che mi girava la testa e sono quasi svenuta, forse perché non avevo mangiato niente per tutto il giorno e neanche bevuto. Dovevo mettermi quel vestitino rosa aderente che è bellissimo ma se hai la pancia gonfia si vede subito.
Allora lui mi ha accompagnato a casa e poi mi ha chiesto il numero del cellulare ma io non glielo davo perché volevo che stesse ancora un po’ con me, non volevo separarmi da lui. Poi alla fine gli ho dato il numero e lui mi ha chiamato.
Così oggi pomeriggio siamo usciti insieme, abbiamo chiacchierato e passeggiato, niente di che ma tutto diventa speciale quando sono con Roman.

Il mio unico amor sarebbe dunque nato dal mio unico odio

Domenica, 13 Maggio
Caro diario,
oggi giornata di merda. Due etti in più sulla bilancia. Tutta colpa di mia madre, ieri sera mi ha fatto mangiare per forza la pasta poi è uscita con il suo nuovo fidanzato. Io sono andata in bagno e ho vomitato tutto ma evidentemente non è servito.
E poi è successa la cosa peggiore che poteva succedere. Un’amica di mia madre, che non si fa mai i cavoli suoi, le ha detto di avermi visto in giro con un albanese poco raccomandabile. Lei dice che il padre di Roman è in prigione e che sua madre non si sa cosa fa per vivere. Io queste cose non le sapevo e comunque non mi interessano, io amo lui e lui è il ragazzo più buono e gentile di questa terra.
Comunque mia madre mi ha proibito di vederlo e ora non so come fare.

La passione presta loro la forza, il tempo e i mezzi per potersi incontrare

Mercoledì, 16 Maggio

Caro diario,
oggi ho detto alla mamma che andavo a studiare dalla Martina. Lei è la mia migliore amica e mi coprirà in caso di bisogno.
Con Roman siamo andati da un tipo che fa i tatuaggi. Noi siamo minorenni ma Roman lo conosce così non ci ha chiesto l’autorizzazione dei genitori. Lui si è fatto tatuare la “G” di Giulia sulla spalla e io la “R” di Roman. Poi ci siamo baciati per la prima volta.
Ora stiamo insieme e staremo insieme per sempre.
Per festeggiare siamo andati a prenderci un gelato e chi se ne frega della dieta. Roman dice che sono bellissima e non sono per niente grassa, anzi, dice che sono troppo magra ma questo lo so che non è vero e lo dice solo per farmi piacere.
Sono felice come non lo sono mai stata.

Sabato 19 Maggio

Caro diario,
Oggi Roman si è fatto prestare lo scooter da un suo amico e siamo andati al mare. Eravamo soli, per fortuna, quando sono con lui ho sempre paura di incontrare qualcuno che mi conosce e che poi lo va a riferire a mia madre.
Roman ha portato anche la merenda. Io non volevo mangiare ma lui ha insistito. Secondo lui sono troppo magra e troppo pallida. Ha detto che ci pensa lui a rimettermi in forma. Abbiamo mangiato una pizzetta e abbiamo bevuto una coca cola. Era tanto che non bevevo la coca cola, era buonissima e alla fine mi è scappato anche un rutto. Sono diventata di tutti i colori per la vergogna e Roman se la rideva, è bellissimo quando ride.
Poi ad un tratto è diventato serio e mi ha detto che lo sa che cosa si dice in giro della sua famiglia ma che lui è un bravo ragazzo e che non vuole fare le cose di nascosto e  che tutti devono sapere che stiamo insieme e che bisognava parlare con mia madre.
Ha ragione, uno di questi giorni le racconterò tutto. Quando lo conoscerà le piacerà. Ne sono sicura.

Cuore di serpe nascosto da un volto bello come un fiore

Lunedì, 21 Maggio
Caro diario,
Oggi mio fratello è finito all’ospedale. Ci hanno chiamato dal pronto soccorso e poi ci hanno detto che si è ferito facendo a botte con un altro ragazzo.  Quando ho capito che l’altro ragazzo era Roman, mi sono sentita morire. Non potevo crederci.
Roman mi ha telefonato, era in custodia ai servizi sociali, mi ha detto che gli dispiaceva ma che non era colpa sua, mio fratello lo aveva assalito per strada dicendogli di stare lontano da me, lui aveva cercato di andarsene ma poi avevano cominciato a spintonarsi e mio fratello era caduto e aveva picchiato la testa sullo spigolo del marciapiede.
Ho pianto tutto il pomeriggio, per mio fratello e ancora di più per Roman.
Verso sera ha chiamato la mamma, Tommaso era fuori pericolo ma aveva riportato un trauma cranico e doveva rimanere in ospedale per qualche giorno.
Mia madre non perdonerà mai Roman per questa cosa. Guai a chi gli tocca Tommaso, lui è il suo preferito.

Come può il cielo tender questi inganni ad un piccolo essere come me

Venerdì, 25 Maggio
Caro diario,
Roman è stato portato in una comunità, non so neanche dove. Così hanno deciso gli assistenti sociali dopo la denuncia dei miei genitori. Chissà quando potrò rivederlo, anzi chissà SE potrò rivederlo.
Senza di lui la mia vita non ha più senso. Non ce la faccio a sopportare il peso della sua mancanza.
Mi ha mandato un sms “Dimenticami, il mio amore ti farà solo soffrire”.
E io, invece, non lo dimenticherò mai.

Troppo preziosa per questa terra

Martedì, 12 Giugno
Caro diario,
mi ha telefonato la Martina, non sono stata ammessa all’esame di terza media, lo sapevo, quest’anno non ho combinato niente e negli ultimi tempi ho fatto tante assenze. Lei era dispiaciuta ma a me non me ne frega niente della scuola. Non andrò neanche alla cena di classe di fine anno, cosa ci vado a fare tanto non mangerei niente e poi preferisco starmene a letto a guardare la televisione.
Sono stanca, non ho più voglia di scrivere questo diario.

Lunedì, 18 Giugno
Caro diario,
questa è l’ultima pagina che scrivo e poi metterò questo quaderno nella scatola dei miei ricordi.
Domani mi porteranno in una clinica per i disturbi alimentari.
Sono tanti giorni, non so neanche quanti, che non tocco cibo, se vedo anche solo un pezzetto di pane mi viene da vomitare. Sono pelle e ossa e non mi reggo in piedi. A Roman non piacerei ma tanto lui non può vedermi.
Per l’occasione si è scomodato anche mio padre questo vuol dire che le mie condizioni sono gravi. Ha preso le ferie ed è sceso da Milano per me.
I miei stanno litigando anche in questo momento. Li sento che urlano nell’altra stanza: “Come hai fatto a non accorgerti di una cosa così grave?”, “Senti chi parla, è più di tre mesi che non vieni a trovare i tuoi figli!”, eccetera, eccetera.
Io non voglio guarire, non voglio mangiare, non voglio crescere per diventare come loro e non voglio vivere senza il mio amore.
Guardo la “R” tatuata sulla mia spalla, era così piccola e ora sembra così grande …

Questa è la  storia dolorosa di Giulia e del suo Roman.




«Sheila» il racconto di Antonio Borrelli per il concorso "Indagine su Giulietta"


Quante persone aveva visto sfrecciare dinanzi al suo esile corpo. Sembravano tanti razzi sparati nell’aria, come una frenetica danza pirotecnica, forse costretti da una vita che loro non gradivano. Stanca, una giovane ragazza li fissava. Questo luccichio di vetture perdurava una notte intera; purtroppo questo era il suo lavoro. Spesso si domandava se la follia delle proprie speranze, fosse paragonabile a quelle dannate macchine di ultima generazione. Una vita occasionale che non le se addiceva, e moriva di nascosto.
Esisteva solo per alcune decine di minuti. Avidi clienti senza scrupoli, da quei bravi padri di famiglia ai poveri disperati, formavano intere frotte invisibili che scorrevano in quella strada. Una vita da bambina spezzata, che non avrebbe mai pensato di scontare in Italia, per essere costretta a vivere lontana dalla sua famiglia d’origine: i genitori l’avevano svenduta per mille euro.
Cupi ricordi annebbiavano quel suo ingenuo dramma, come quel suo primo amore verso Fatmir, un bel ragazzo dagli occhi verdi; tuttavia quel suo viaggio d’amore a Venezia, si trasformò in una prigione intessuta di ebano e cristalli purissimi. Lacrime, botte e sevizie di ogni genere avevano insanguinato il suo amore per lui. Quel sentimento giovanile trasfigurò in un dramma a cielo aperto.
Ogni sera mercanteggiava il proprio corpo, ma non la sua anima; pertanto l’amaro destino le aveva dato una condanna bastarda. Spesso piangeva, sempre di nascosto. Era divenuta schiava della cocaina, quella bianca pioggia maledetta, e l’aveva cancellata. Rinasceva ogni notte, e simile alle falene volava nella luce; così che nessuno la notasse, come un morto in un giorno di festa.
Ingegneri, architetti, medici, preti, militari e anche donne; insomma tutti volevano un sorso di Sheila, solo smaniosi demoni. L’inferno bramava sempre la sua anima, ma lei non aveva ceduto. Pioggia, vento, caldo e gelo si avvicendarono nel corso dei mesi; dopo molto tempo gli angeli risposero alle sue quotidiane paure. Una legge contro la prostituzione aveva limitato, grazie a severi controlli, quel via vai continuo di fameliche automobili lussuose; ciononostante una notte verso le dieci, una Ford rossa si avvicinò.
«Ciao.» esclamò una voce maschile armoniosa.
«Ciao.» rispose Sheila.
«Mi sono innamorato di te.» disse rapidamente quell’uomo.
«Si, certo. Tutti me lo dicono da mesi!» urlò Sheila.
«Ti prego, credimi. Voglio renderti felice.» dichiarò l’uomo.
«Se ti credo….mi lascerai libera?» chiese incuriosita.
«Fidati di me.» confermò con un tono sicuro.
Sheila temeva i maniaci seriali, perché già in passato rischiò.  Entrò in quell’automobile rossa fuoco, rivolgendo il suo sguardo verso quell’uomo sconosciuto. Aveva trentacinque anni, un fisico palestrato e un modo grazioso nel guidare. La ragazza non concepiva quel tizio stradale come un pericolo, tanto che aveva accettato l’invito senza pensarci troppo. Era diventata pazza?
Molte volte la forza della disperazione è maggiore del pericolo stesso; malgrado ciò il suo destino avrebbe rimescolato le carte. La macchina rossa avanzava spedita nella notte afosa, ma tutto a un tratto si fermò davanti al cancello di una villa palladiana. Improvvisamente l’uomo scese rapido dalla vettura, e fissandola dall’esterno del finestrino, spinse la vecchia apertura del cancello: erano giunti in un paradiso verde, distante solo pochi chilometri dall’inferno quotidiano vissuto dalla ragazza.
Sheila smontò dall’automobile appena parcheggiata nel cortile. A lenti passi varcò l’uscio di quell’abitazione settecentesca; in altre parole un sogno si trasformava in realtà. L’uomo sconosciuto prendeva le sembianze di un principe azzurro, strano ma buono.
«Entra amore mio.» disse l’uomo mentre la fissava.
«Amore?...nemmeno mi conosci!» rispose sconvolta Sheila.
«Io sono perdutamente innamorato di te.» confermò l’uomo.
Una storia impossibile si stava concretizzando, sotto una luna spoglia di rancore, mentre un leggero vento soffiava nel giardino. L’uomo sconosciuto incarnava quel sogno di una vita insperata, nemmeno l’amore per Fatmir l’aveva resa davvero così felice. Nella follia di quella notte si oscurarono le sue mille paure, all’interno del suo cuore regnava l’eterna riconoscenza amorosa. Appena entrati in quella nuova casa, Sheila si sentì a suo agio.
«Non è possibile.» esclamò la ragazza.
«Se vuoi questa casa, sarà la nostra.» rispose l’uomo.
«Posso solo conoscere il tuo nome?» chiese la giovane.
«Francesco.» rispose l’uomo sconosciuto.
Può una persona innamorarsi di uno sconosciuto appena visto? L’amore persegue vie nascoste ai miseri comuni mortali, tanto che non sarebbe mai giusto giudicare una relazione sentimentale. Sheila s’infatuò di quel bell’uomo sconosciuto, che rispondeva solo al nome di Francesco; giacché il passato avrebbe rappresentato solo un fosco ricordo da dimenticare al più presto. Era la stagione delle ciliegie, il caldo soffocava le finestre della villa palladiana, ma l’amore nasceva finalmente in quei due cuori. La strada era un pallido incubo, che venne raso al suolo in una notte candida: baci, carezze e veri sentimenti aleggiavano in quel bellissimo posto, circondato da robusti pioppi e sani cipressi.
L’anno seguente, Sheila rimase incinta di due splendidi gemelli. Quell’amore nato all’improvviso, nello stesso modo donava gioia ai due innamorati. I sogni sembrano castelli trasparenti, almeno così dicono. Quei giorni  d’amore trascorsero in maniera allegra. Purtroppo l’uragano arrivò senza preavviso, riportando Fatmir nella vita della povera innamorata incinta; però adesso non era più sola contro il mostro, perché aveva il suo Romeo vicino a lei.
Giulietta senza speranza di fronte al carnefice, tremante come una foglia autunnale smossa dal vento di Bora. L’incubo prese rapida forma; però in quell’istante Francesco esclamò tali parole:
«Se la tocchi, giuro che ti uccido!» disse Francesco.
«Guardala la schiava…..» rispose Fatmir.
«Dimenticala per sempre.» riferì l’innamorato.
«Allora devi battermi…» disse Fatmir.
Iniziò così una lotta tra i due rivali, tutto sotto gli occhi attoniti della ragazza incinta. Un lungo coltello a doppia lama sfidava Francesco, che cercò un modo di sfuggire a quei continui assalti. L’innamorato di Sheila schivava i colpi, ricordando un guerriero afghano impegnato in battaglia: un coraggio indomito contro la morte. Calci, pugni, stritolamenti e ancora pugni, nel nome della donna contesa; però solo uno dei due avrebbe vinto quella sfida.
Dopo quarantacinque minuti di lotta, Fatmir non si rialzò più da terra, perché la sua stessa arma bianca si conficcò nel suo petto. Sheila aspettava due gemelli, ma la morte non aveva saputo attendere quel conto in sospeso, forse fu davvero meglio così. Una volta calata la notte, Francesco seppellì il corpo del carnefice all’interno del grande giardino alberato della villa palladiana, precisamente adiacente ai laghetti. Nessun prova della contesa doveva essere resa nota al mondo intero: Giulietta era libera.

Da quell’unione nacquero due bellissimi bambini, che avrebbero vissuto una vita completamente diversa rispetto a Sheila; dunque il prezioso combattimento aveva regalato la libertà nella sua vita. Tutto questo le fece dimenticare la cocaina, la strada, quei dannati clienti e tutte le sevizie subite in terra straniera. Lontana da casa, ma libera di vivere l’esistenza come una madre davvero felice.
Una famiglia bellissima, ricordo ancora quella coppia e i loro discorsi, ancora oggi non penso d’aver mai incontrato persone deliziose come quelle. Non conoscevo la loro odissea personale. Non posso giudicarli e mai potrei farlo, anche perché dovrei iniziare dalla mia stessa persona. Giulietta e Romeo rivivono nella loro vicenda, splendida tristezza velata da un forte sapore intenso.
Dolci sogni che si trasformarono in un bellissimo matrimonio, così l’amore clandestino per una prostituta diventò eterno. Ancora oggi voglio ricordare quel biglietto natalizio dei fantastici coniugi De Bellis, forse una lezione che non potrò facilmente scordare:

L’amore è un dono del cielo,
anche quando perdi la speranza,
la luce divina accende la tua vita.
Non smettere mai d’amare il prossimo,
perché condanneresti il tuo cuore all’oblio.


«Giulietta è fuori a cena» il racconto di Davide Di Finizio per il concorso "Indagine su Giulietta"


Mi chiamo Giulia Capuleti e faccio la puttana. Sì, so benissimo cosa penserebbe uno di voi, onesti benpensanti, se si trovasse a leggere queste righe, dettate dall’angoscia e scritte dalla disperazione. Eppure non mi vergogno di quello che sono, né sono più tanto sensibile all’ironia del destino, che m’ha appioppato il nome e il cognome di una delle più famose amanti della letteratura, una che nella sua breve vita ebbe un solo uomo. Io, invece, ne ho avuti tanti di uomini, sì, tanti, e sento ancora il fetore del loro alito sulla pelle, le mani lascive avventarsi in cerca di piacere, le braccia dure e prepotenti trastullarsi col mio corpo inerme, come un giocattolo da usare e poi gettare via. All’inizio sentivo la morte dentro, ogni volta che uno di quei porci affittava le mie gambe per ottenere il suo squallido momento di gloria. Ma poi, col tempo, ho cominciato a farci l’abitudine. In fondo do in affitto solo la parte esteriore di me. Non l’anima. Sì, che voi ci crediate o no, io credo nell’esistenza dell’anima, e saprei avanzare più d’un’originale argomentazione a sostegno di questa tesi. Sapete, sono stata all’Università io, studiavo Filosofia. Una volta mi ponevo tante domande, cercavo delle risposte, che ovviamente non trovavo, eppure non smettevo di cercare. Avevo tante aspirazioni una volta, ero persino quella che si suol dire una ragazza virtuosa. Mi sembrava impossibile pensare al sesso senza pensare all’amore. E invece, ad un certo punto, molte cose sono cambiate. Credo sia stata la morte di mio padre: era lui, col suo misero stipendio di statale, a pagarmi gli studi. Un uomo onesto, lui, uno che aveva sgobbato una vita intera senza mai fare il furbo, solo per portare a casa quello che gli spettava. E fu lui a chiamarmi Giulia. Come Giulietta, l’eroina di Shakespeare, so che disse a mia madre per convincerla. Già, aveva letto Shakespeare, mio padre. Erano proprio brave persone, non avevano fatto come tanti genitori egoisti che obbligano i figli a scelte opportuniste. Mi avevano lasciata libera di scegliere, persino una facoltà che, è ormai un luogo comune, non garantisce solidi sbocchi occupazionali. Ma era quello che volevo. Eppure, venuto meno lui, sono stata costretta ad arrangiarmi. Non volevo mollare gli studi e accettavo qualsiasi lavorucolo che mi permettesse di aiutare mia madre e pagarmi le spese, comprese quelle del buco dove alloggiavo nei pressi dell’università. Ho fatto la commessa, la segretaria, la baby sitter, l’animatrice, l’insegnante privata, un po’ di tutto, qualsiasi cosa mi permettesse di avere qualcosa in tasca. Ma non era vita, quella, semplicemente sopravvivenza, senza svaghi, senza niente, nemmeno il lusso di andare liberamente fuori a cena. Era una storia come tante, come quella di tanti miei amici e coetanei. Una notte, però, mi successe qualcosa di insolito. Avevo rotto da poco col mio ultimo ragazzo e, essendo su di giri per qualche bicchiere di troppo, mi lasciai sedurre da un uomo più grande di me, un signore distinto, affascinante, da cui mi sentivo veramente attratta. Passai una notte fantastica ma al mattino, dolcemente cullata da quel sogno di breve durata, non mi resi quasi conto di quel che fece prima di congedarsi e lasciai che sbattesse sul comodino un grosso fascio di banconote. Solo quando fu via presi coscienza del fatto. Srotolai quell’involto e sentii che quello era il valore che aveva attribuito alla notte trascorsa. Piansi per ore. Mi sentivo umiliata, dal suo gesto, e dalla mia reazione mancata. Eppure, non so perché, dopo qualche giorno, non avevo più lacrime e cominciai a considerare le cose sotto un altro punto di vista. Quel fascio di bigliettoni erano molto più di quanto avrei guadagnato in un mese di uno di quei lavori del cavolo. E il buco dove alloggiavo si trasformò nel mio ufficio. Andrò avanti così per un po’, mi dicevo, il tempo di finire l’università e cercare un lavoro degno di questo nome. Ma poi, gradualmente, quello che era nato per puro caso e si trascinava per ripiego, cominciò a divenire la mia principale attività. Ad un tratto, persino la filosofia che era stata la mia ragione di vita cominciò ad apparirmi né più né meno che un inutile passatempo da cui non avrei cavato un soldo. E così, addio studi. Sono passati degli anni. Mia madre non ha mai saputo nulla della mia… svolta professionale. Da quando ho accettato la mia condizione, le cose hanno cominciato a filare. Almeno apparentemente. Niente più problemi economici, solo disillusione totale e assenza di scrupoli. Eppure, chissà perché, non riuscivo a liberarmi di un tarlo che era dentro di me.
Nel tempo libero andavo a passeggiare spesso sul pontile, un luogo meraviglioso sospeso sul mare e da cui si scorge un panorama fantastico. Mi entusiasma il mare, anche se ho sempre rimpianto di non aver imparato a nuotare. Eppure, e forse a maggior ragione, il suo spettacolo mi carica di un’ebbrezza infinita. In particolare, ciò che mi ha sempre affascinato è la veduta di Capri, quella splendida isola che, da lontano, somiglia al sinuoso corpo di una donna distesa.
“Bella, vero?”mi chiede una voce, distogliendomi dalla contemplazione, e mi ritrovo accanto un bel ragazzo che mi fissa sorridente.
“Di che parli?”rispondo, seccata dall’intrusione.
“Di Capri. Non è lei che stai guardando anche tu?”
“Sì, è vero”confermo ammansita “Mi affascina, forse perché somiglia a una donna”
“Era una donna”precisa lui.
Lo guardo un po’ perplessa e lui aggiunge: “Secondo una leggenda, si gettò in mare per un amore impossibile, per un giovane di nome Vesuvio, che dalla disperazione si trasformò in vulcano”
“Un amore impossibile!”esclamo, avvinta dal suo racconto “come Romeo e Giulietta”
“Già. Come loro”mi risponde sorridendo “e posso sapere il nome di una ragazza così romantica e sensibile da emozionarsi al racconto di amori mitici?”
Ed io, sconvolta dal fatto di esser stata considerata romantica e sensibile, borbotto: “Giulia… Giulia Capuleti”
“Come!”esclama, inebetito “Mi prendi in giro?”
“No, sono sincera”concludo, voltandogli le spalle “Ora devo scappare, scusami” e, senza prestare ascolto alle sue obiezioni, ho abbandonato il pontile, spaventata dalla mia sincerità e ancor più dalla possibilità che, dopo il nome, volesse sapere cosa faccio nella vita. Eppure quel fugace incontro ha ridestato in me qualcosa che credevo estinto. Sono tornata per qualche giorno alla solita vita e, per la prima volta, dopo anni, l’ho trovata ripugnante. Dopo essermi fatta coraggio, sono tornata sul pontile, sperando di rivederlo. E così è stato. Anche lui sembrava essere lì per me. E per alcuni giorni sentivo di vivere una doppia vita: da un lato l’abituale condotta, dall’altro gli innocenti colloqui con quell’affascinante sconosciuto, che non andavano mai sul personale. Non sapevo se fosse più straordinaria la mia solita esistenza, o gli eterei dialoghi con quel giovane bello, colto e sensibile, quello studentello ventenne che nel suo candore mi appariva più uomo di tutti quelli che avevo conosciuto. Sentivo che avrei potuto amare un uomo così, ma arrivava troppo tardi: a trent’anni la mia dignità era morta e sepolta. Così ho smesso di andare sul pontile. Ma, ahimè, sentivo la tentazione forte di rivederlo. Frenare l’abitudine delle passeggiate non era bastato a dimenticarlo. Avrei mai potuto dirgli la verità? No, sarebbe stato inutile. Inutile e umiliante. Ma un giorno, contro ogni aspettativa, affacciandomi l’ho trovato sotto il mio balcone. Proprio come Romeo!
“Che ci fai qui? Come fai a sapere dove vivo?”gli ho chiesto, divisa tra l’istinto di scacciarlo e la felicità di rivederlo.
“Una volta che andasti via bruscamente, ti ho seguita. E così ho scoperto dove abiti”
Ero terrorizzata al pensiero che potesse aver scoperto anche altro, ma la mia paura, a quanto pare, era infondata.
“Ma non ho mai pensato di venire a cercarti qui”ha ripreso “mi bastava rivederti sul pontile, dove ci incontravamo quasi ogni giorno. Poi, all’improvviso, sei sparita. Ogni giorno speravo di vederti riapparire, ma niente, nessuna traccia. E così oggi mi sono deciso a venire”
“Ti prego” gli ho risposto, cercando di trovare le parole adatte per allontanarlo, senza ferirlo “tu sei una persona speciale, forse la migliore che abbia mai conosciuto ma, proprio per questo, t’imploro di stare lontano da me”
“Ma perché? Cos’è che mi nascondi?”
“A che servirebbe dirtelo? A veder mutare in odio quella dolcezza che mi dimostri? No, ti prego, se vuoi fare qualcosa per me, non tornare mai più qui”ho concluso in modo sbrigativo, imbarazzata da quella scenetta ridicola e dal pensiero che altri ci potessero sentire.
Ha provato ad insistere, ma sono stata molto ferma, e alla fine ha desistito. Si è allontanato, e non è più tornato. È dura per me ammetterlo, ma a volte ho desiderato tanto che riapparisse sotto il mio balcone. Ma non l’ho più visto. E mai più lo rivedrò, ora che ho deciso. Mi ero rassegnata al mio ruolo, credendo di non poter provare un’emozione simile. E, ora che è accaduto, capisco che non solo è inutile provare a cambiare, ma altrettanto inutile trascinare la mia disgustosa esistenza. E finalmente, forse, questa consapevolezza mi farà sentire libera. Addio, ipocriti benpensanti. Stasera Giulietta è fuori a cena.

Per poco i fogli non gli cadono dalle mani. La verità lo turba e, soprattutto, quel malcelato desiderio di morte. E se pensa al modo fortuito e romanzesco con cui ha scoperto tutto, non crede ai suoi occhi. Non l’aveva dimenticata. Veniva sotto il suo balcone quasi ogni giorno, ma senza farsi vedere, sperando solo di rivederla. E qualche volta, quando il portone era aperto, si spingeva sino alla sua soglia, ma senza il coraggio di bussare. Stavolta, invece, contro ogni previsione, la sua porta era socchiusa, e non ha resistito alla tentazione di entrare. Non c’era nessuno. Solo, sul tavolo, una sequela di fogli manoscritti: uno sfogo o, forse, il testamento di un’anima, quella stessa cui, nonostante tutto, non aveva mai smesso di credere. Ma forse non è troppo tardi, pensa lui. Forse so dove va a farla finita. Si precipita sul pontile, che questa sera è abbastanza desolato. E lì, di fronte a Capri, scorge una sagoma femminile assorta.
“E’ bella, anche di sera” le borbotta lui.
Lei si volta, sorpresa dal vederlo ma, un attimo dopo, nota qualcosa tra le mani, un fascio di fogli, i suoi: non sa spiegarsi come, ma… sa tutto!
“E allora… che ci fai qui?”gli chiede.
“Lo sai”risponde lui, in un sospiro.
“Tu credi nell’amore?”
“Sì, ci credo”
“E credi che basti?”
“No, certo che no”risponde lui, riflettendo “ma, forse, basta a prendersi per mano”
“E poi?”
“E poi…” balbetta lui, indeciso, mentre, quasi inavvertitamente, si prendono per mano. “E poi… si va fuori a cena”conclude, parafrasando la frase finale del suo scritto. Si sorridono e, mano nella mano, abbandonano il pontile, sotto gli occhi di Capri che li osserva dal letto del mare.

«Elastica» il racconto di Martina Serafin per il concorso "Indagine su Giulietta"


Sentì l’impellente bisogno di cambiare programma sulla via del centro commerciale di sabato pomeriggio. Era come non potesse fare a meno di gettare le braccia al collo di Tom. Sarebbe stata una sorpresa sensazionale, di quelle che ti fanno ridere incredulo e pensare che allora non succede solo nei romanzi stupidi. Aveva pochissimi minuti per dare forma al suo desiderio, nella sfilata di capannoni incandescenti che già s’intravedeva dal finestrino.
“Papà, che ne dici di accompagnarmi dal mio amico che abita qui vicino?”, propose sporgendosi come un piccolo animale selvatico dal sedile posteriore.
Ai suoi piaceva parecchio la verità, anche quella impertinente, perciò la premiarono con una pronta deviazione. Mamma aveva il sorriso di chi ti conosce così bene da poterti promettere la tua esatta idea di paradiso ma ti chiede in cambio una tacita, maestosa lealtà.
“Rebecca, ti veniamo a recuperare dopo cena, non fare stronzate…”, finse severità papà, che aveva già inquadrato il tipo e ritornava pure un po’ giovane. Si rivedeva in quello strano ragazzo, anche se non gli conveniva granché ammetterlo e sperava sua figlia non cogliesse la somiglianza. Tanto Becky lo sapeva eccome, ben prima di ripagare i suoi con sguardo infinitamente grato e incamminarsi colma di ogni formidabile gioia verso casa di Tom. 
Sciolse il ghiaccio sul campanello con il calore dell’indice, dopo aver suonato a vuoto un paio di volte. Dorme, non fa nulla, sarà ancora più sorprendente.
Entrò agile dalla finestra della taverna e fu subito avvolta da un senso di terrore domestico, che rendeva tutto così normale e inquietante. Del fumo vischioso si appoggiava sulle cose e sembrava ricoprirle fino a farle sparire, uno schermo gettava la luce di qualche malinconico MTV Unplugged all’ennesima replica, la poltrona era ancora tiepida e scomposta.
Ma di Tom neanche l’ombra.
Becky non si azzardò a chiamarlo, avrebbe rovinato la presunta atmosfera, e decise di aspettarlo con la stessa discrezione del portacenere pieno sul bordo del tavolino. Fu travolta da proiezioni spontanee di serate a festeggiare qualche compleanno, i tredici, i quattordici e i quindici anni novanta. Impazziva per il rito della playlist: andava da ciascuno degli invitati, l’esortava a scrivere il suo pezzo preferito del momento su un taccuino e si divertiva a combinarli in sequenze mozzafiato da sprigionare senza interruzione. Funzionava sempre, era la sua specialità, la rendeva una ragazza da andarne fieri, l’unica con cui accorgersi fosse l’alba e un bacio al volo prima di dare una sistemata alla stanza e filare a letto.
Tom, però, non tornava.
Il torpore dei ricordi svanì d’un tratto e Becky fu divorata dalle fauci di un pericolo incombente. Il cuore in gola, le sembrava un altro battito rallentasse, come ne stesse sincopando il ritmo col suo martellare furibondo. Una pulsazione in meno e l’avrebbe perso, ovunque lui fosse.
Salì disperata in camera, in cucina, in bagno. Il bagno. Apri la cazzo di porta, Tom.
Era così agitata da non abbassare del tutto la maniglia e notò solo all’ultimo tentativo che quella scena non era chiusa a chiave: se ne stava lì, candido, la schiena contro la vasca, le gambe divaricate e un laccio emostatico attorno al braccio. Becky non registrò altro ma capì che non aveva ancora avuto il coraggio del caso e gli si buttò addosso. Senza una parola, slegò il serpente chirurgico e lo trascinò sul materasso, sfoggiando una prontezza di spirito che tradiva la paura più sconfinata.
“Era la mia prima volta…”, sibilò Tom immobile, spiritato.
Becky cadde debole al suo fianco, le pareva di aver corso fino all’orlo della vita per guardare giù la morte e ritrarsi inorridita. Rigava il cuscino di lacrime invisibili, incapace di ribattere, mentre la neve fuori riproponeva a fiocchi virtuosi il consueto tema del Natale alle porte. Si strinse comunque a lui per il freddo e indugiarono alcuni istanti sul filo di silenziosi perché. Quindi, schioccate le nocche e raccolto il senno, Tom ebbe l’intuizione del secolo nella lotta contro lo schifo cosmico. Cominciò a spogliarla, talmente lento e delicato che Becky l’avrebbe potuto fermare con un soffio ma lo lasciò fare, lo fece affondare tutte le volte che voleva e aveva immaginato, forse anche di più.
Al diavolo.
Lo ritrovò d’incanto in piena, con il segno dell’elastico a cerchiargli di rosso il gomito. Coglione. Che ti eri messo in testa di provare, quando bastava chiedermi di fare l’amore per sempre. Stavolta davvero. Avvertì il sangue scendere e poi scorrere lontano, come il lenzuolo fosse mare… Era la mia prima volta.










«Giulietta e Romeo, forse» il racconto di Eleonora Ippolito per il concorso "Indagine su Giulietta"


Tra dieci minuti passa a prendermi e io non sono ancora pronta. E ci credo, ho dovuto beccarmi la ramanzina di mio padre per tutto il tempo che mi è servito a fare colazione. Che vecchio noioso, quello là! Se da grande diventerò come lui dovrò farmi sopprimere come si fa con i cavalli malati o giù di lì. Cioè, i vecchi sono già noiosi di loro, ma mio padre lo è molto di più. Tipo che stamattina mi ha ripetuto venti volte che non ho ancora quattordici anni e non posso fare sempre come mi pare. Io, invece, gli ho detto che ho quattordici anni e non sono più una bambina scema che fa tutto quello che vuole lui e la Muta. E la  Muta sarebbe mia madre che di difendermi non ne vuole mai sapere e l’unica cosa che fa durante il giorno è scappare dal parrucchiere e dall’estetista. “Tuo padre si preoccupa, lo devi capire!”, mi dice al massimo, tra una tinta biondo banana e una biondo paglierino. Ma di cosa si preoccupa, quello là? Sono grande e so quello che faccio. E comunque lui è sempre preoccupato. Si preoccupa per qualsiasi cosa: la musica a tutto volume, i miei amici, il mio nuovo ombretto super luccicante. Fino a quando tutte queste cose ha cominciato a ignorarle quando ha capito che  mi sono innamorata del figlio di uno dei suoi operai rumeni. Quando l’ha saputo non mi ha fatto uscire per un mese e mi ha tolto il computer per due settimane. Neanche il cellulare, potevo usare, roba che potevo denunciarlo per sequestro o qualcosa del genere. Cioè, cosa c’è di male a farsi piacere uno che ha i genitori della Romania? È come dire che uno mi sta antipatico solo perché ha i genitori che sono nati a Milano o a Roma. Che senso ha? Ma lui niente, non ne ha voluto sapere e come se non bastasse mi ha pure fatto conoscere uno. “Un bravissimo ragazzo, Paride, figlio di uno dei miei più cari amici. Pensa che da grande vuole fare l’avvocato!”, mi ha detto. Ma come potrei uscire con uno che ha quel nome? Paride… Più lo ripeto e più mi sembra brutto…e lo dice una che si chiama Giulietta! E giusto per precisare, il mio nome è frutto della scemenza della Muta che è fissata con quelle tragedie pallose scritte tipo tremila anni fa e che ci insegnano a scuola. Roba da sclero, dico io. Però, se io sono Giulietta, lui era il mio Romeo. E se mio padre scopre come l’ho conosciuto gli viene un infarto, lo so.

Era la festa di compleanno della Muta: lei fa sempre una festa nel salone grande della nostra villa nel giorno che compie gli anni. E mi costringe ogni anno a partecipare vestita con degli abiti orrendi con su dei pizzi e dei merletti che forse andavano di moda ai suoi tempi, quando più o meno c’erano ancora i dinosauri. Ovviamente lui s’è imbucato insieme ai suoi amici, ma tra tutta la gente che mia madre di solito invita, chi poteva accorgersene? È stato allora che ci siamo conosciuti. Non mi toglieva gli occhi di dosso e io mi sentivo bellissima come una di quelle modelle che si vedono sui cataloghi di moda. “Aspetta che lo racconti a scuola!”, ho pensato, ma proprio in quel momento lui si è avvicinato. Mi ha parlato e oltre che bellissimo tipo Justin Bieber ma con i capelli più scuri, mi è sembrato tanto dolce e gentile. Peccato per quei cretini dei suoi amici che hanno cominciato a sfottere, ma alla fine abbiamo deciso di ignorarli e, lontani dagli occhi degli altri, ci siamo baciati in giardino, seduti sulle sdraio vicino alla piscina. Ci siamo scambiati i numeri di telefono e i contatti su Facebook, ma quella notte, mentre mi appisolavo, mi è arrivato un messaggio sul cellulare. “Amò, esci k sn in giardino”. Mi sono affacciata al balcone della mia stanza, al primo piano, e lui era lì. Non era neppure tornato a casa e mi aveva aspettata là fuori per tutto il tempo. Un brivido mi ha scosso quando l’ho visto. “Se mio padre ti vede ti ammazza, e poi ammazza me”, gli ho detto. Sì, lo so, non è una delle cose più romantiche da dire in un caso del genere, ma mica potevo incoraggiarlo più di tanto, dico io. E poi era vero che mio padre ci avrebbe ammazzati se ci avesse visti. Ma a quel punto lui ha cominciato a parlarmi di sole e oriente, di ali dell’amore e manti della notte. Lo ammetto, non ci ho capito niente, ma alla fine abbiamo passato così quasi tutta la notte. Se n’è andato all’alba, ma non pensate che lo abbia fato salire in camera e ci abbia fatto chissà cosa: mica faccio quello con uno che ho conosciuto la sera prima! Però l’idea mi ha sfiorato un paio di volte, mentre ero con lui.

Il giorno dopo lo abbiamo passato a messaggiare e a taggarci su Facebook con i video dei Modà e di Emma. Poi è successo un casino. Cioè, sapevo che mio padre è isterico, ma quella volta ha superato ogni limite. Ci ha beccati mentre passeggiavamo insieme mano nella mano e mi ha trascinata a casa urlandomi di tutto. Tipo che una ragazza di buona famiglia come me non può abbassarsi ad uscire con uno come quello, e la parola quello la diceva tutto schifato, come se avesse mangiato qualcosa di disgustoso. Perché quello, secondo lui, non è come me o lui. E la Muta, ovviamente, faceva la muta. Io ho cominciato a rispondere a mio padre. Cioè, tu insulti il mio ragazzo e io devo stare zitta? Ma alla fine mio padre mi ha messo in punizione ed è andato a parlare con i genitori di lui e fine della storia. Non l’ho più rivisto né sentito. Poi un giorno, quando finalmente ho riavuto il permesso di usare il cellulare, ho letto un suo sms che mi diceva di aver fatto a botte con quello scemo di mio cugino Tebaldo (tutti nomi interessanti, in famiglia mia, eh?) che, da bravo troglodita, saputo quello che era successo, voleva difendere il mio onore, o almeno così andava dicendo in giro. E nel farlo aveva mandato all’ospedale l’amico Mercuzio. Ora anche lui era in punizione ed era stato mandato in campagna dalla zia. Questo significava che non ci saremmo visti per mesi e la cosa mi ha mandata nel panico. Cioè, insomma, io lo amavo e lui amava me…che senso aveva stare così lontani? Dovevo fare qualcosa per rivederlo, e il mio vecchio amico Lorenzo poteva essere la soluzione. Perché? Ha il motorino e i miei si fidano ciecamente di lui.

Peccato che Lorenzo, quando ha capito che da lui volevo solo un passaggio per andare a trovare il mio Romeo, mi ha lasciata in mezzo alla strada più isolata della città, in piena notte. E sì che lo so che ha sempre avuto una cotta per me, ma reagire così è proprio esagerato. Oltre che non me l’aspettavo. Ho chiamato lui, gli ho chiesto di venirmi a prendere. È arrivato dopo mezz’ora. Guidava la macchina dello zio, e la cosa mi è sembrata subito strana: ha 16 anni e non ha la patente. Però mi ha detto che era un caso di emergenza e ha dovuto prenderla di nascosto. Mi stava riaccompagnando a casa quando abbiamo avuto l’incidente. Ho pensato che sarei morta, che saremmo morti entrambi. Quella volta, in ospedale, non sono mai stata tanto contenta di rivedere i miei genitori, ma a loro non lo dico neanche per sogno.

Mio padre continua a parlarmi e io annuisco. Non ha ancora capito che ho le cuffie nelle orecchie e ascolto Adele dall’ipod. Quando è noioso! Per fortuna che il mio cellulare comincia a squillare. Devo scendere, mi sta aspettando fuori. Saluto mio padre che continua a sbraitare mentre la Muta si dipinge le unghie e mi fiondo oltre il cancello di casa. Non li sopporto davvero più, quei due vecchi! Ma com’è che si diventa come loro, a una certa? Ho proprio bisogno di una bella passeggiata e di una chiacchierata. E magari anche di un bel gelato. Corro incontro alla mia best friend Francy e l’abbraccio. “Gelatino, tesò?”, le dico, e lei accetta volentieri e ci dirigiamo in centro raccontandoci i fatti nostri. E pure lei ha dei genitori pesanti e una storia finita male con un ragazzo, quindi lo so che mi capisce quanto io capisco lei. L’adoro perché lei è uguale a me. La stessa cosa non si può dire per il mio caro Romeo. Che, giusto per puntualizzare, ho lasciato io la scorsa settimana. E che vi aspettavate, che mi suicidassi per amore insieme a lui? Ho 14 anni ma non sono stupida. E poi sono cresciuta parecchio, da allora. Cioè, abbiamo continuato a vederci, dopo l’incidente. Fino a quando non l’ho scoperto che limonava con quell’oca di mia cugina Rosalina. Tipo che manco la luna cambia faccia più in fretta di lui. Ma vi rendete conto? Quello là è uscito con me ma contemporaneamente si vedeva anche con lei. Insomma, dopo questa credo di aver chiuso con gli uomini. Almeno per ora. Perché se Romeo è davvero Romeo, dovrebbe essere pronto a rinnegare il suo stesso nome per me, a superare ogni ostacolo di pietra, a lottare per il nostro germoglio d’amore nel vento estivo. E dovrebbe esser pronto a morire sulle mie labbra, solo per amor mio. Chiedo forse  troppo?

«Il Piccolo Mondo di Juliette» il racconto di Mariangela Acunzo per il concorso "Indagine su Giulietta"


Juliette. Questo nome l'ha sempre odiato.
Le è apparso, fin dall'età della ragione, una volgarità pari a quella di certa gente del sud Italia che, nel rintracciare la prole dal balcone di un vicolo trasandato, urla: “Bruccheeee!?”.
Evidenziando una subcultura da telenovelas e ritenendo del tutto normale che una bambina di sei anni e un metro (di larghezza), disegnata da una moquette di peli neri stampata su ogni millimetro di pelle, possa chiamarsi come Brooke Logan di Beautiful anche se vive nei quartieri spagnoli piuttosto che in una villa a Los Angeles.
Non che in certe campagne venete, poco distanti dalla sua Verona, siano ammissibili le Sharon o le Michelle, ma almeno sono bionde e, se evitano di esprimersi con suoni gutturali degni del Trota, possono recitare il ruolo della turista straniera per un po'!
Si direbbe che Juliette sia decisamente classista, ma no! E' solo arrabbiata, come tutti i giovani che non trovano risposte, il resto è un retaggio culturale e come rimproverarla quando si apprende che discende da una famiglia in cui, fin dal '300, le lotte di quartierino erano all'ordine del giorno?
Da Dante a Shakespeare, nessuno si è risparmiato nel mettere in pubblica piazza gli affari degli avi suoi, più accaniti di certi giornalisti odierni da rotocalchi estivi! Perché Juliette appartiene al ramo di Lord Capuleti & Co., una stirpe che ha sempre fatto notizia, anche se oggi preferirebbe essere la figlia di un pentito mafioso, 'che almeno Saviano si prenderebbe la responsabilità di farci dieci trasmissioni sù! Mentre la responsabilità emotiva di chiamarsi Juliette Capuleti è unicamente sua.
I genitori hanno preferito la versione francese (très chic!), come se cambiasse qualcosa... ma cosa è realmente cambiato in quattrocento anni e più?
Escludendo il suo taglio di capelli corto e asimmetrico e gli affari del padre, collassati sotto il Governo Monti, vi risponderebbe che è rimasto pressoché tutto uguale, anzi, che forse è peggiorato, che almeno la sua lontana cugina un Romeo, disposto ad affrontare tutto e tutti e pronto a morire per lei, ce l'aveva, mentre oggi è più probabile sposare un Romeo disposto ad uccidere te senza un perché o, se ti va bene, un egocentrico che non vuole responsabilità, stile Romeo er gatto del Colosseo!
Per non parlare della balia, poi! Non faceva in tempo ad affezionarsi ad una, che le scadeva il permesso di soggiorno! Non che le sia capitato di preferirne qualcuna in particolare, tuttavia Larisa era rimasta quasi un anno a badare alla casa (i più maligni sostengono ad infinocchiare suo padre), poi sono sbarcati i russi milionari e Larisa è scomparsa, sicché Juliette si è fermamente riproposta di non credere più al sentimento tanto che oggi, quando parla con le amiche nel suo slang, ripete spesso: “Pozione avvelenata 'sti cazzi!“ o “Pugnale 'nfame nun te temo” (Juliette si esprime occasionalmente in dialetto romano, giusto per fare imbestialire tutti i Capuleti iscritti alla Lega Nord).
Del resto lei in chiesa nemmeno ci va, Don Lorenzo le è sembrato un po' troppo attento nei suoi confronti e quando la confessa gli puzza l'alito di vino, così, escludendo la mamma che, tra palestre, spa e viaggi è sempre troppo occupata; il padre impegnato a bestemmiare contro la moglie e Monti ogni dì; la nuova domestica che vuole essere pagata a parte se le si chiede di stirare i panni, figuriamoci se le si chiede un consiglio; le professoresse che la odiano per il suo taglio asimmetrico di capelli, e per la sua vivace intelligenza che le mette in difficoltà, lamentando quotidianamente di essere sottopagate per affrontare un ruolo simile e sognando la pensione sempre più lontana...chi cavolo gliela dovrebbe dare questa pozione magica o anche solo un parere?!
Certo che, in quanto a imposizioni, non è cambiato proprio nulla.
Ad esempio, a Natale avrebbe tanto voluto un cane, ma sotto l'albero ci ha trovato il bauletto di Vuitton. Tra l'altro Juliette è vegana, come la maggior parte dei ragazzi di oggi, cerca di far qualcosa per cambiare il mondo, ma il mondo pare non darle ascolto, il mondo gode a restar vecchio quanto più di quattro secoli fa!
Almeno all'epoca i vestiti te li sceglievi tu, erano solo tuoi, ricca o povera che fossi, e ti nascondevano pure la cellulite esaltando le grazie, mentre adesso, dai dodici mesi ai cinquant'anni, le vedi tutte uguali, con gli occhiali vintage da cinquecento euro anche se fanno le commesse a mezza giornata, strizzate in magliettine di Hello Kitty rubate alle figlie, insieme a una terza coppa c pagata al chirurgo, ma no! Non lo sono. Uguali non lo saranno mai.
Solo la storia resta uguale a se stessa e pare non insegnare nulla.
In fondo lei voleva giusto un piccolo batuffolo di peli, tutto suo, da abbracciare, e invece ha avuto un pezzo di pelle morta da indossare, lo stesso sfoggiato dalla figlia di Larisa, che ora frequenta il suo liceo privato, dove si vocifera che il bauletto l'abbia comprato a suon di mms compromettenti, perché i ragazzi non sono tutti uguali, ma molti genitori sì e si finisce col somigliargli e non credere più ai propri sogni, prendendo in prestito quelli mancati degli altri. E poi lei nemmeno ci voleva andare in quel liceo, avrebbe preferito una scuola pubblica, ma Paride andava lì e Paride appartiene “all'élite di Verona”, sicché detta legge anche in materia di vacanze, immaginatevi di futuro e d' istruzione. I suoi non hanno desistito neanche quando gli ha confessato che Mercuzio frequentava lo stesso istituto. Certo, era amico di quel ragazzino che le piaceva e che loro osteggiavano, ma pur sempre parente del Presidente della Regione e un aggancio in politica non guasta mai!
Romeo, si chiamava Romeo, una stupida coincidenza, ma la vita è fatta di queste, no?
Attimi, casualità, mani che si sfiorano, occhi che si incontrano, desideri, languori, mica di altro?
E mica c'era bisogno di chiamarlo “terrone maleducato”? Tanto lei lo aveva capito che con Romeo non c'era storia e non perché fosse di Capri, perché era stronzo proprio come Paride e Mercuzio e  tutti gli altri dall'Appennino in giù! Solo un po' più fantasioso e romantico...ma mammone, tanto mammone! Altro che lotta tra famiglie, Romeo si scaglierebbe anche contro il Papa per difendere la mamma, del resto, da chi porterebbe a stirare le camicie?! E poi, la parmigiana di melanzane di casa Montecchi non ha eguali! (Secondo il suo parere, ovvio! A Juliette le resta decisamente sullo stomaco!).
Però, quando Paride ha deciso di andare in vacanza a Capri, mica gliel'hanno vietato? No!
Come caproni le due famiglie si sono imbarcate sullo yatch privato di Teobaldo e dovevi vederla Madonna Capuleti ballare sul tavolo dell'Anema e Core, sembrava più napoletana di Romeo, che nel locale neanche ci sarebbe entrato se Mercuzio non l'avesse trascinato a forza! Ma ormai era lì e a rapirla, con la scusa dei faraglioni di notte, ci ha messo un nanosecondo. Dopo è stato tutto un susseguirsi di sms, perché sa scrivere Romeo, scrive bene, scrive così bene che ad un certo punto, Juliette, sul display dell'iPod di sua cugina Rosalina, ha letto: “Il mio peccato succhiato da te! E rendimelo, allora, il mio peccato! R.” e ha compreso che Romeo era un comune guitto da recite tutte uguali, tanto che avrebbe voluto prendere a testate i Faraglioni, se solo non avesse avuto quattordici anni e tutta la vita avanti a se. Che poi Tebaldo è dovuto comunque salpare di corsa col suo yatch verso altri lidi, le coste italiane sono meno convenienti si sa, ormai Capri se la possono permettere solo Larisa e suo marito! Paride ha conosciuto un' aspirante velina e in casa non si vede più e i Capuleti hanno deciso di vendere il terrazzino storico al Teatro Stabile, per evitare la mostruosa imposta dell'IMU.
Juliette ha messo all'asta la sua Vuitton su e-bay, finalmente potrà pagare le vaccinazioni e le cure di quel bastardino che ha visto al canile, senza dover chiedere niente a nessuno.
Che diamine! Vuole solo un cane. Come sempre l'hanno desiderato tutti i ragazzini da secoli a questa parte.
E un po' di felicità, di attenzione, di dolcezza, di parole, di trasgressione, di poesia, di esclusività, come da sempre richiedono i sentimenti in qualsiasi epoca e a qualsiasi età.