Per una associazione di idee
quasi meccanica ho sempre pensato che la linea curva sia femmina e la linea
retta maschio. È vero, ho sempre pensato a un paradosso. Ma la geometria in
fondo è un po' assurda: quell'insieme di regole che risolve e semplifica la
vita. Una, una sola retta può incontrare una circonferenza in un unico punto,
ed è qundi per via della tangente che non mi sono sposato. Semplicemente ho
vagato nello spazio sommando punti, ordinandoli in avanti.
Eppure esistono infiniti modi
di congiungere due punti.
Mi chiamo Romeo e la sveglia
suona da tre anni tutte le mattine alle sei e mezza, domeniche comprese. E'
assolutamente necessario alzarsi da destra perchè, se avessi una donna, lei
dovrebbe dormire alla mia sinistra. Le ciabatte, parallele sul pavimento,
disegnano un perfetto angolo retto col bordo del letto. E' un piacere sottile
penetrarle con i piedi nudi, sono aperte ed accoglienti, novanta gradi di
piacere. Ci sono quattordici passi per arrivare di fronte alla scritta
"Cesame" della tazza del cesso che riflette, ceramica curva, la poca
luce della stanza da bagno. Mi tocco sempre volentieri, anche solo per
distillare in caduta le ultime goccie di quello che rimane della Garganega DOC
dei colli di Soave. Ho bevuto durante l'ennesima notte insonne.
Quando chiudo la porta di casa
con nove movimenti rotatori, divisi per tre serrature di sicurezza disposte in
modo equidistante sull'altezza del piano verticale, sono già alla terza
sigaretta e di me stesso non è cambiato molto da quando mi sono alzato dal
letto. Mi lavo così. Sarebbe una perdita di tempo pettinare i pochi capelli che
mi sono rimasti. Lo specchio è ancora imballato nel cartone da quando, più di
tre anni fa, ho preso in affitto questo appartamento che è solo un quadrato
difficilmente inscrivibile nel cerchio del mondo. La cura più meticolosa la
dedico ad altre cose, per esempio ad indossare la stessa camicia per il sesto
giorno consecutivo in modo che il colletto non tradisca la sua poca voglia di
incontrare, ancora una volta, il mio collo.
A Verona c'è la puzza, sempre
quella, di migliaia di sacchi della spazzatura che il camion della nettezza
urbana va raccogliendo. E' un logaritmo preciso ed esponenziale la puzza di
spazzatura di questo quartiere di nuova edificazione. Ancora qualche famiglia e
l'aria sarà veramente irrespirabile.
L'autobus arriva preciso come
un teorema alla fermata e subito riparte, rumoroso e arrogante, chiudendo le
porte sulla faccia di quella donna. Succede quasi sempre e io resto lì a
guardarla attraverso il vetro sporco, sempre più piccola sul marciapiede che si
allontana.
No, questa mattina le venti
smorfiosette alle quali insegno geometria alla scuola femminile del Sacro Cuore
di Montecchio Maggiore possono aspettare o andarsene a quel paese. Questa
mattina voglio vedere da vicino quei due occhi pieni di odio sui quali rifletto
e mi specchio tutti i giorni.
Mi metto a urlare e l'autista
frena duecento metri dopo essere ripartito. Il tempo di scendere, con il piede
destro come la punta di un compasso, al preciso centro di una grande
pozzanghera d'acqua sporca. L'autobus se ne va portando con se l'ordine
geometrico, il sistema algebrico di una vita. La mia vita: mi chiamo Romeo e la
sveglia suona da tre anni tutte le mattine alle sei e mezza, domeniche
comprese.
Lei è ancora ferma con i pugni
chiusi a bestemmiare tra se. Accenna uno sguardo verso me, non è né brutta né
bella. Ma quale valore estetico può avere una linea curva? Mi avvicino
lasciandomi dietro una serie intermittente di impronte bagnate sul marciapiede.
Mi guarda, finalmente, e su quella faccia pallida, emaciata, sotto quei lunghi
capelli biondastri rinchiusi in una treccia, ci sono i suoi occhi: due sfere
nere incastrate sopra a zigomi troppo segnati. Le sue non sono guance comuni,
sono triangoli rettangoli che chiudono una smorfia sottile. Subito vorrei
appoggiarmi al quadrato costruito su quell’ipotenusa che scivola verso la
bocca. Uno slancio nuovo si impadronisce delle mie vene, guardandola il sangue
scorre e formicola indecente verso la semiretta oscena che ha sempre costituito
la sintesi dei miei pensieri. Non ho più pudore e lei capisce. Mi dice qualcosa
come "ormai l'autobus è andato... anche oggi ho perso la giornata di
lavoro" e poi ancora due parole sul suo capo ufficio, tale Tebaldo. Il
decimetro impunito prende a pulsare, sconcio, senza più controllo. Resto zitto,
paonazzo davanti al calcolo matematico complesso di un dialogo che non avrei
mai dovuto affrontare. Mi parla ancora e si avvicina alla mia faccia come per
mettere a fuoco: "...ho le chiavi del capanno nel giardino del
castello". La voce è roca, soffia eccitante. Sei per sette: quarantadue! È
come se il tempo si fosse fermato, siamo già dentro a questa fredda baracca.
Non so cosa fare. Tutte le
regole sono saltate, muovo le mani goffamente sui suoi abiti e poi sulla sua
pelle, ma non sento niente. Nessun rumore, nessun odore. Otto per cinque:
quaranta!
I miei sensi sono rimasti su
quell'autobus insieme a Pitagora e davanti agli occhi ho sempre due sfere nere
che mi fissano. Lascio fare tutto a lei. Ma tutto cosa?
Le tabelline! Ecco, devo fare
un altro sforzo per ricordare, un altro piccolo sforzo per cercare di liberarmi
da una morsa che mi tiene inchiodato a questa sedia.
Ecco ora ricordo: sette per
sei, lei mi bacia sui lobi, la radice quadrata di 144, mi lecca le orecchie e
sento l'umido della sua saliva, dodici!
Eureka! Il teorema si è fatto
grosso, l'intuizione giunge come un'orgasmo, paradigmatica, totalizzante e
assoluta. Quattro per tre: devo spezzare questa linea curva, tutto il sistema
decimale, questa femmina impudica e senza regole. Devo!
Mi bagno i pantaloni.
Ma le linee curve, a
differenza delle rette, si piegano, sfuggono alla presa e non hanno di norma la
rigidità sufficiente. Così per un attimo mi perdo nei calcoli e intanto lei ha
tirato fuori sottili strisce di stoffa che ormai mi legano inesorabilmente al
legno ruvido e freddo di una sedia nel capanno del giardino del castello. Lei
gioca, io calcolo, sommo, moltiplico, conto e riconto.
Quando decide di andarsene è
notte. Mi lascia legato e imbavagliato dentro al capanno. Prima di chiudere il
coperchio del mio freddo sarcofago si gira e, ancora una volta, due sfere nere
mi guardano scintillando nel buio. Sono solidi
geometrici costituiti da tutti i punti che sono a uguale distanza da un solo
punto detto centro. Dice:
“… mi chiamo Giulietta e il mio orologio è rotto. Quel bastardo del mio ex
ragazzo fa l’autista. L’avevo avvisato: col tuo cazzo di autobus, lasciami
un’altra volta a piedi e … Ma questa è un’altra storia.”
Sono legato, imbavagliato e mi
si è fermata anche la capacità di calcolo. Resto immobile nel mio terrore,
mentre lei continua: “credevi non ti avessi notato? Credi di essere
trasparente? Stronzo, sono tre anni che ti osservo!” Deglutisco e penso che mi
chiamo Romeo, la mia sveglia suona da tre anni tutte le mattine alle sei e
mezza. “Stronzo, mi devi sposare, quanto è vero che mi chiamo Giulietta! Domani
mattina torno qui e tu mi dici di sì. Capito? Hai tutta la notte per pensarci…”
Se ne va sbattedo la porta: “non scherzo affatto, stronzo!”
Euclide aveva ragione, sul
piano della vita, da un punto e' possibile tracciare solamente una parallela
alla retta data.