mercoledì 29 agosto 2012

«Postulato» il racconto di Pierangelo Federici per il concorso "Indagine su Giulietta"


Per una associazione di idee quasi meccanica ho sempre pensato che la linea curva sia femmina e la linea retta maschio. È vero, ho sempre pensato a un paradosso. Ma la geometria in fondo è un po' assurda: quell'insieme di regole che risolve e semplifica la vita. Una, una sola retta può incontrare una circonferenza in un unico punto, ed è qundi per via della tangente che non mi sono sposato. Semplicemente ho vagato nello spazio sommando punti, ordinandoli in avanti.
Eppure esistono infiniti modi di congiungere due punti.

Mi chiamo Romeo e la sveglia suona da tre anni tutte le mattine alle sei e mezza, domeniche comprese. E' assolutamente necessario alzarsi da destra perchè, se avessi una donna, lei dovrebbe dormire alla mia sinistra. Le ciabatte, parallele sul pavimento, disegnano un perfetto angolo retto col bordo del letto. E' un piacere sottile penetrarle con i piedi nudi, sono aperte ed accoglienti, novanta gradi di piacere. Ci sono quattordici passi per arrivare di fronte alla scritta "Cesame" della tazza del cesso che riflette, ceramica curva, la poca luce della stanza da bagno. Mi tocco sempre volentieri, anche solo per distillare in caduta le ultime goccie di quello che rimane della Garganega DOC dei colli di Soave. Ho bevuto durante l'ennesima notte insonne.

Quando chiudo la porta di casa con nove movimenti rotatori, divisi per tre serrature di sicurezza disposte in modo equidistante sull'altezza del piano verticale, sono già alla terza sigaretta e di me stesso non è cambiato molto da quando mi sono alzato dal letto. Mi lavo così. Sarebbe una perdita di tempo pettinare i pochi capelli che mi sono rimasti. Lo specchio è ancora imballato nel cartone da quando, più di tre anni fa, ho preso in affitto questo appartamento che è solo un quadrato difficilmente inscrivibile nel cerchio del mondo. La cura più meticolosa la dedico ad altre cose, per esempio ad indossare la stessa camicia per il sesto giorno consecutivo in modo che il colletto non tradisca la sua poca voglia di incontrare, ancora una volta, il mio collo.

A Verona c'è la puzza, sempre quella, di migliaia di sacchi della spazzatura che il camion della nettezza urbana va raccogliendo. E' un logaritmo preciso ed esponenziale la puzza di spazzatura di questo quartiere di nuova edificazione. Ancora qualche famiglia e l'aria sarà veramente irrespirabile.

L'autobus arriva preciso come un teorema alla fermata e subito riparte, rumoroso e arrogante, chiudendo le porte sulla faccia di quella donna. Succede quasi sempre e io resto lì a guardarla attraverso il vetro sporco, sempre più piccola sul marciapiede che si allontana.
No, questa mattina le venti smorfiosette alle quali insegno geometria alla scuola femminile del Sacro Cuore di Montecchio Maggiore possono aspettare o andarsene a quel paese. Questa mattina voglio vedere da vicino quei due occhi pieni di odio sui quali rifletto e mi specchio tutti i giorni.
Mi metto a urlare e l'autista frena duecento metri dopo essere ripartito. Il tempo di scendere, con il piede destro come la punta di un compasso, al preciso centro di una grande pozzanghera d'acqua sporca. L'autobus se ne va portando con se l'ordine geometrico, il sistema algebrico di una vita. La mia vita: mi chiamo Romeo e la sveglia suona da tre anni tutte le mattine alle sei e mezza, domeniche comprese.
Lei è ancora ferma con i pugni chiusi a bestemmiare tra se. Accenna uno sguardo verso me, non è né brutta né bella. Ma quale valore estetico può avere una linea curva? Mi avvicino lasciandomi dietro una serie intermittente di impronte bagnate sul marciapiede. Mi guarda, finalmente, e su quella faccia pallida, emaciata, sotto quei lunghi capelli biondastri rinchiusi in una treccia, ci sono i suoi occhi: due sfere nere incastrate sopra a zigomi troppo segnati. Le sue non sono guance comuni, sono triangoli rettangoli che chiudono una smorfia sottile. Subito vorrei appoggiarmi al quadrato costruito su quell’ipotenusa che scivola verso la bocca. Uno slancio nuovo si impadronisce delle mie vene, guardandola il sangue scorre e formicola indecente verso la semiretta oscena che ha sempre costituito la sintesi dei miei pensieri. Non ho più pudore e lei capisce. Mi dice qualcosa come "ormai l'autobus è andato... anche oggi ho perso la giornata di lavoro" e poi ancora due parole sul suo capo ufficio, tale Tebaldo. Il decimetro impunito prende a pulsare, sconcio, senza più controllo. Resto zitto, paonazzo davanti al calcolo matematico complesso di un dialogo che non avrei mai dovuto affrontare. Mi parla ancora e si avvicina alla mia faccia come per mettere a fuoco: "...ho le chiavi del capanno nel giardino del castello". La voce è roca, soffia eccitante. Sei per sette: quarantadue! È come se il tempo si fosse fermato, siamo già dentro a questa fredda baracca.
Non so cosa fare. Tutte le regole sono saltate, muovo le mani goffamente sui suoi abiti e poi sulla sua pelle, ma non sento niente. Nessun rumore, nessun odore. Otto per cinque: quaranta!
I miei sensi sono rimasti su quell'autobus insieme a Pitagora e davanti agli occhi ho sempre due sfere nere che mi fissano. Lascio fare tutto a lei. Ma tutto cosa?
Le tabelline! Ecco, devo fare un altro sforzo per ricordare, un altro piccolo sforzo per cercare di liberarmi da una morsa che mi tiene inchiodato a questa sedia.
Ecco ora ricordo: sette per sei, lei mi bacia sui lobi, la radice quadrata di 144, mi lecca le orecchie e sento l'umido della sua saliva, dodici!
Eureka! Il teorema si è fatto grosso, l'intuizione giunge come un'orgasmo, paradigmatica, totalizzante e assoluta. Quattro per tre: devo spezzare questa linea curva, tutto il sistema decimale, questa femmina impudica e senza regole. Devo!
Mi bagno i pantaloni.

Ma le linee curve, a differenza delle rette, si piegano, sfuggono alla presa e non hanno di norma la rigidità sufficiente. Così per un attimo mi perdo nei calcoli e intanto lei ha tirato fuori sottili strisce di stoffa che ormai mi legano inesorabilmente al legno ruvido e freddo di una sedia nel capanno del giardino del castello. Lei gioca, io calcolo, sommo, moltiplico, conto e riconto.
Quando decide di andarsene è notte. Mi lascia legato e imbavagliato dentro al capanno. Prima di chiudere il coperchio del mio freddo sarcofago si gira e, ancora una volta, due sfere nere mi guardano scintillando nel buio. Sono solidi geometrici costituiti da tutti i punti che sono a uguale distanza da un solo punto detto centro. Dice: “… mi chiamo Giulietta e il mio orologio è rotto. Quel bastardo del mio ex ragazzo fa l’autista. L’avevo avvisato: col tuo cazzo di autobus, lasciami un’altra volta a piedi e … Ma questa è un’altra storia.”
Sono legato, imbavagliato e mi si è fermata anche la capacità di calcolo. Resto immobile nel mio terrore, mentre lei continua: “credevi non ti avessi notato? Credi di essere trasparente? Stronzo, sono tre anni che ti osservo!” Deglutisco e penso che mi chiamo Romeo, la mia sveglia suona da tre anni tutte le mattine alle sei e mezza. “Stronzo, mi devi sposare, quanto è vero che mi chiamo Giulietta! Domani mattina torno qui e tu mi dici di sì. Capito? Hai tutta la notte per pensarci…” Se ne va sbattedo la porta: “non scherzo affatto, stronzo!”
Euclide aveva ragione, sul piano della vita, da un punto e' possibile tracciare solamente una parallela alla retta data.

Nessun commento:

Posta un commento