lunedì 27 agosto 2012

«Giulietta è fuori a cena» il racconto di Davide Di Finizio per il concorso "Indagine su Giulietta"


Mi chiamo Giulia Capuleti e faccio la puttana. Sì, so benissimo cosa penserebbe uno di voi, onesti benpensanti, se si trovasse a leggere queste righe, dettate dall’angoscia e scritte dalla disperazione. Eppure non mi vergogno di quello che sono, né sono più tanto sensibile all’ironia del destino, che m’ha appioppato il nome e il cognome di una delle più famose amanti della letteratura, una che nella sua breve vita ebbe un solo uomo. Io, invece, ne ho avuti tanti di uomini, sì, tanti, e sento ancora il fetore del loro alito sulla pelle, le mani lascive avventarsi in cerca di piacere, le braccia dure e prepotenti trastullarsi col mio corpo inerme, come un giocattolo da usare e poi gettare via. All’inizio sentivo la morte dentro, ogni volta che uno di quei porci affittava le mie gambe per ottenere il suo squallido momento di gloria. Ma poi, col tempo, ho cominciato a farci l’abitudine. In fondo do in affitto solo la parte esteriore di me. Non l’anima. Sì, che voi ci crediate o no, io credo nell’esistenza dell’anima, e saprei avanzare più d’un’originale argomentazione a sostegno di questa tesi. Sapete, sono stata all’Università io, studiavo Filosofia. Una volta mi ponevo tante domande, cercavo delle risposte, che ovviamente non trovavo, eppure non smettevo di cercare. Avevo tante aspirazioni una volta, ero persino quella che si suol dire una ragazza virtuosa. Mi sembrava impossibile pensare al sesso senza pensare all’amore. E invece, ad un certo punto, molte cose sono cambiate. Credo sia stata la morte di mio padre: era lui, col suo misero stipendio di statale, a pagarmi gli studi. Un uomo onesto, lui, uno che aveva sgobbato una vita intera senza mai fare il furbo, solo per portare a casa quello che gli spettava. E fu lui a chiamarmi Giulia. Come Giulietta, l’eroina di Shakespeare, so che disse a mia madre per convincerla. Già, aveva letto Shakespeare, mio padre. Erano proprio brave persone, non avevano fatto come tanti genitori egoisti che obbligano i figli a scelte opportuniste. Mi avevano lasciata libera di scegliere, persino una facoltà che, è ormai un luogo comune, non garantisce solidi sbocchi occupazionali. Ma era quello che volevo. Eppure, venuto meno lui, sono stata costretta ad arrangiarmi. Non volevo mollare gli studi e accettavo qualsiasi lavorucolo che mi permettesse di aiutare mia madre e pagarmi le spese, comprese quelle del buco dove alloggiavo nei pressi dell’università. Ho fatto la commessa, la segretaria, la baby sitter, l’animatrice, l’insegnante privata, un po’ di tutto, qualsiasi cosa mi permettesse di avere qualcosa in tasca. Ma non era vita, quella, semplicemente sopravvivenza, senza svaghi, senza niente, nemmeno il lusso di andare liberamente fuori a cena. Era una storia come tante, come quella di tanti miei amici e coetanei. Una notte, però, mi successe qualcosa di insolito. Avevo rotto da poco col mio ultimo ragazzo e, essendo su di giri per qualche bicchiere di troppo, mi lasciai sedurre da un uomo più grande di me, un signore distinto, affascinante, da cui mi sentivo veramente attratta. Passai una notte fantastica ma al mattino, dolcemente cullata da quel sogno di breve durata, non mi resi quasi conto di quel che fece prima di congedarsi e lasciai che sbattesse sul comodino un grosso fascio di banconote. Solo quando fu via presi coscienza del fatto. Srotolai quell’involto e sentii che quello era il valore che aveva attribuito alla notte trascorsa. Piansi per ore. Mi sentivo umiliata, dal suo gesto, e dalla mia reazione mancata. Eppure, non so perché, dopo qualche giorno, non avevo più lacrime e cominciai a considerare le cose sotto un altro punto di vista. Quel fascio di bigliettoni erano molto più di quanto avrei guadagnato in un mese di uno di quei lavori del cavolo. E il buco dove alloggiavo si trasformò nel mio ufficio. Andrò avanti così per un po’, mi dicevo, il tempo di finire l’università e cercare un lavoro degno di questo nome. Ma poi, gradualmente, quello che era nato per puro caso e si trascinava per ripiego, cominciò a divenire la mia principale attività. Ad un tratto, persino la filosofia che era stata la mia ragione di vita cominciò ad apparirmi né più né meno che un inutile passatempo da cui non avrei cavato un soldo. E così, addio studi. Sono passati degli anni. Mia madre non ha mai saputo nulla della mia… svolta professionale. Da quando ho accettato la mia condizione, le cose hanno cominciato a filare. Almeno apparentemente. Niente più problemi economici, solo disillusione totale e assenza di scrupoli. Eppure, chissà perché, non riuscivo a liberarmi di un tarlo che era dentro di me.
Nel tempo libero andavo a passeggiare spesso sul pontile, un luogo meraviglioso sospeso sul mare e da cui si scorge un panorama fantastico. Mi entusiasma il mare, anche se ho sempre rimpianto di non aver imparato a nuotare. Eppure, e forse a maggior ragione, il suo spettacolo mi carica di un’ebbrezza infinita. In particolare, ciò che mi ha sempre affascinato è la veduta di Capri, quella splendida isola che, da lontano, somiglia al sinuoso corpo di una donna distesa.
“Bella, vero?”mi chiede una voce, distogliendomi dalla contemplazione, e mi ritrovo accanto un bel ragazzo che mi fissa sorridente.
“Di che parli?”rispondo, seccata dall’intrusione.
“Di Capri. Non è lei che stai guardando anche tu?”
“Sì, è vero”confermo ammansita “Mi affascina, forse perché somiglia a una donna”
“Era una donna”precisa lui.
Lo guardo un po’ perplessa e lui aggiunge: “Secondo una leggenda, si gettò in mare per un amore impossibile, per un giovane di nome Vesuvio, che dalla disperazione si trasformò in vulcano”
“Un amore impossibile!”esclamo, avvinta dal suo racconto “come Romeo e Giulietta”
“Già. Come loro”mi risponde sorridendo “e posso sapere il nome di una ragazza così romantica e sensibile da emozionarsi al racconto di amori mitici?”
Ed io, sconvolta dal fatto di esser stata considerata romantica e sensibile, borbotto: “Giulia… Giulia Capuleti”
“Come!”esclama, inebetito “Mi prendi in giro?”
“No, sono sincera”concludo, voltandogli le spalle “Ora devo scappare, scusami” e, senza prestare ascolto alle sue obiezioni, ho abbandonato il pontile, spaventata dalla mia sincerità e ancor più dalla possibilità che, dopo il nome, volesse sapere cosa faccio nella vita. Eppure quel fugace incontro ha ridestato in me qualcosa che credevo estinto. Sono tornata per qualche giorno alla solita vita e, per la prima volta, dopo anni, l’ho trovata ripugnante. Dopo essermi fatta coraggio, sono tornata sul pontile, sperando di rivederlo. E così è stato. Anche lui sembrava essere lì per me. E per alcuni giorni sentivo di vivere una doppia vita: da un lato l’abituale condotta, dall’altro gli innocenti colloqui con quell’affascinante sconosciuto, che non andavano mai sul personale. Non sapevo se fosse più straordinaria la mia solita esistenza, o gli eterei dialoghi con quel giovane bello, colto e sensibile, quello studentello ventenne che nel suo candore mi appariva più uomo di tutti quelli che avevo conosciuto. Sentivo che avrei potuto amare un uomo così, ma arrivava troppo tardi: a trent’anni la mia dignità era morta e sepolta. Così ho smesso di andare sul pontile. Ma, ahimè, sentivo la tentazione forte di rivederlo. Frenare l’abitudine delle passeggiate non era bastato a dimenticarlo. Avrei mai potuto dirgli la verità? No, sarebbe stato inutile. Inutile e umiliante. Ma un giorno, contro ogni aspettativa, affacciandomi l’ho trovato sotto il mio balcone. Proprio come Romeo!
“Che ci fai qui? Come fai a sapere dove vivo?”gli ho chiesto, divisa tra l’istinto di scacciarlo e la felicità di rivederlo.
“Una volta che andasti via bruscamente, ti ho seguita. E così ho scoperto dove abiti”
Ero terrorizzata al pensiero che potesse aver scoperto anche altro, ma la mia paura, a quanto pare, era infondata.
“Ma non ho mai pensato di venire a cercarti qui”ha ripreso “mi bastava rivederti sul pontile, dove ci incontravamo quasi ogni giorno. Poi, all’improvviso, sei sparita. Ogni giorno speravo di vederti riapparire, ma niente, nessuna traccia. E così oggi mi sono deciso a venire”
“Ti prego” gli ho risposto, cercando di trovare le parole adatte per allontanarlo, senza ferirlo “tu sei una persona speciale, forse la migliore che abbia mai conosciuto ma, proprio per questo, t’imploro di stare lontano da me”
“Ma perché? Cos’è che mi nascondi?”
“A che servirebbe dirtelo? A veder mutare in odio quella dolcezza che mi dimostri? No, ti prego, se vuoi fare qualcosa per me, non tornare mai più qui”ho concluso in modo sbrigativo, imbarazzata da quella scenetta ridicola e dal pensiero che altri ci potessero sentire.
Ha provato ad insistere, ma sono stata molto ferma, e alla fine ha desistito. Si è allontanato, e non è più tornato. È dura per me ammetterlo, ma a volte ho desiderato tanto che riapparisse sotto il mio balcone. Ma non l’ho più visto. E mai più lo rivedrò, ora che ho deciso. Mi ero rassegnata al mio ruolo, credendo di non poter provare un’emozione simile. E, ora che è accaduto, capisco che non solo è inutile provare a cambiare, ma altrettanto inutile trascinare la mia disgustosa esistenza. E finalmente, forse, questa consapevolezza mi farà sentire libera. Addio, ipocriti benpensanti. Stasera Giulietta è fuori a cena.

Per poco i fogli non gli cadono dalle mani. La verità lo turba e, soprattutto, quel malcelato desiderio di morte. E se pensa al modo fortuito e romanzesco con cui ha scoperto tutto, non crede ai suoi occhi. Non l’aveva dimenticata. Veniva sotto il suo balcone quasi ogni giorno, ma senza farsi vedere, sperando solo di rivederla. E qualche volta, quando il portone era aperto, si spingeva sino alla sua soglia, ma senza il coraggio di bussare. Stavolta, invece, contro ogni previsione, la sua porta era socchiusa, e non ha resistito alla tentazione di entrare. Non c’era nessuno. Solo, sul tavolo, una sequela di fogli manoscritti: uno sfogo o, forse, il testamento di un’anima, quella stessa cui, nonostante tutto, non aveva mai smesso di credere. Ma forse non è troppo tardi, pensa lui. Forse so dove va a farla finita. Si precipita sul pontile, che questa sera è abbastanza desolato. E lì, di fronte a Capri, scorge una sagoma femminile assorta.
“E’ bella, anche di sera” le borbotta lui.
Lei si volta, sorpresa dal vederlo ma, un attimo dopo, nota qualcosa tra le mani, un fascio di fogli, i suoi: non sa spiegarsi come, ma… sa tutto!
“E allora… che ci fai qui?”gli chiede.
“Lo sai”risponde lui, in un sospiro.
“Tu credi nell’amore?”
“Sì, ci credo”
“E credi che basti?”
“No, certo che no”risponde lui, riflettendo “ma, forse, basta a prendersi per mano”
“E poi?”
“E poi…” balbetta lui, indeciso, mentre, quasi inavvertitamente, si prendono per mano. “E poi… si va fuori a cena”conclude, parafrasando la frase finale del suo scritto. Si sorridono e, mano nella mano, abbandonano il pontile, sotto gli occhi di Capri che li osserva dal letto del mare.

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